Un libro-conversazione
fra Antonio Gnoli e Gennaro Sasso
fra Antonio Gnoli e Gennaro Sasso
racconta l’attualità del pensatore fiorentino
Alberto Asor Rosa
“La Repubblica”, 3 dicembre 2013
Cade quest’anno (più o meno) il cinquecentenario della composizione del Principe di Niccolò Machiavelli. I segnali che il paese (l’Italia, insomma) se ne sia accorto sono scarsi: qualche, sia pure non irrilevante, manifestazione universitaria; nulla a livello istituzionale (che so, un’iniziativa a cura della Presidenza della Repubblica o della Presidenza del Consiglio); poco sulla stampa; nulla nei media. Non vorrei esordire con la solita, benché giustificatissima, ma ormai ampiamente logora, querimonia: questo paese (l’Italia, insomma) non ricorda niente di sé, neanche le cose sue più alte e più belle. Machiavelli è uno dei tre-quattro intellettuali italiani (si possono ancora usare questi termini?), per cui il resto del mondo è in debito con l’Italia: insieme con lui, a volerci tenere molto stretti, Dante, Galilei e Leopardi. Per giunta, Machiavelli, interprete acutissimo di virtù e, soprattutto, di vizi italici, dovrebbe essere, e restare il livre de chevet dei nostri politici, governanti e, per la seconda volta absit iniuria verbis, intellettuali. Insieme con Machiavelli, e con lui tutti gli altri rappresentanti di una non ignobile tradizione, va a picco tutta la nostra cultura (del resto, su queste pagine ne ha già parlato opportunamente Maurizio Bettini, il 30 novembre): così si farà strada più facilmente la nuova tecnologia del sapere, orientata in larga parte a una conoscenza senza pensiero.
Tanto più opportune e gradite arrivano dunque fra noi queste Conversazioni su Machiavelli, intitolate I corrotti e gli inetti, fra Antonio Gnoli e Gennaro Sasso (Bompiani, pagg. 208), le quali, sia pure velocemente e sinteticamente, fanno il punto sulla situazione, elencando al tempo stesso i molteplici e resistentissimi motivi di attualità del Segretario fiorentino. Ad Antonio Gnoli il compito, svolto egregiamente, di spremere il maggior succo possibile da uno studioso eccezionale del pensiero machiavelliano come Gennaro Sasso (del quale rammenterò soltanto, fra i tanti titoli possibili, una riedizione aggiornata di un suo vecchio testo su Machiavelli, ora in due volumi: I.Il pensiero politico, e: II La storiografia, il Mulino, 1993; e il fatto che sta attendendo con Giorgio Inglese a una Enciclopedia machiavelliana, destinata a uscire entro il 2014 presso Treccani); ma anche, con domande pungenti e qualche inserimento scomodo, andando qui e là anche al di là delle pur preziose affermazioni del Maestro.
Nessuno può pretendere che sia possibile racchiudere in un articolo di giornale una così ricca materia. Dirò solo alcune cose sulla posizione ermeneutica di Sasso, ovviamente agli intendenti già ben nota, e tuttavia nella concisione talvolta quasi epigrammatica assunta qui nelle “conversazioni”, in un certo senso ancora più precisa e chiara.
I cardini dell’interpretazione sassiana di Machiavelli sono: 1. l’idea che Machiavelli sia un pensatore profondamente anticristiano (il che gli sarebbe valso l’ostracismo da molti, e importanti e duraturi settori della nostra cultura e opinione pubblica e politica militante); 2. L’idea, mutuata dall’antico, che il mondo, siccome non è stato creato, è eterno e che perciò i suoi sommovimenti si ripetono con regolarità impressionante, anche se con fogge diverse; 3. l’idea che la storia umana si svolga lungo un piano inclinato che tende uniformemente verso il basso, cioè in decadenza inarrestabile e continua.
Se si mettono insieme queste tre (colossali) premesse, ne nasce una visione precisa del pensiero politico machiavelliano: il quale sarebbe espressione di un’energia d’insuperabile portata, che però lotta necessariamente contro forze indomabili. Perciò, per citare direttamente il Maestro, Machiavelli «ha, della storia, una concezione tragica» (p. 119); è «l’autore di un pensiero politico tragico» (p. 77); più esattamente ancora (ma il riferimento più preciso, e non infondato, è in questo caso alle Istorie fiorentine), «Machiavelli è uno storico che non evita l’apocalisse » (p. 113). In questo ragionamento su di un Machiavelli “oscuro” (la definizione ricorre più volte nelle “conversazioni”), Gnoli interviene in un certo senso per accentuarla. È questo il senso di una sua domanda a Sasso, con evidente sottolineatura: “Anche se in forma sfumata consideri Machiavelli un pensatore nichilista?” (e Sasso, a dir la verità, risponde: «Al fondo non lo era. Sempre, e ostinatamente, egli s’impone di credere che si potesse costruire una repubblica »; il che, a dir la verità, non significa negare del tutto il senso sottoposto alla domanda di Gnoli).
Se un articolo di giornale non è la sede più giusta, per esporre in tutti, i suoi aspetti, una materia così complessa, lo è ancor meno per motivare un punto di vista sia pure modestamente differenziato rispetto a quello dei due autori. Proverò soltanto a dire, anche questa volta, come la ricchezza del pensiero machiavelliano sia tale da renderne possibili letture diverse, e pure non necessariamente antagonistiche fra loro (forse complementari?).
Io, in questa fase storica, che per noi italiani va dagli albori del Risorgimento e arriva fino ai giorni nostri, ancorerei di più Machiavelli alla vicenda italia-na. Non c’è dubbio che Machiavelli pensi e operi nel momento in cui quella che io ho chiamato in numerose occasioni la “grande crisi italiana” (la “grande crisi”, di cui, si badi bene, noi siamo ancora oggi figli), sia già allora in atto. Giudicata a questa stregua la stessa idea di scrivere Il Principe e di proporlo all’attenzione dei principi italiani del tempo affinché ne prendessero esempio e incitamento, avrebbe dovuto apparire, agli occhi del suo stesso autore, inane e vane. Eppure, lo concepì e lo scrisse: perché nel grande politico il dovere del fare prevale sempre sull’obbligo del pensare (o meglio: il pensare è sempre messo al servizio del fare). Naturalmente, nel 1513-14, gli anni, appunto, della composizione dell’operetta, l’impresa teorico-politica doveva sembrare ancora possibile, per non apparire, appunto, inutile e vana. Appena qualche anno più tardi, fra il 1525 e il 1526, Machiavelli e Guicciardini prodigiosamente affiancati come non lo erano stati mai in passato, si forzano insieme di trovare gli strumenti affinché anche l’ultimo varco non si chiuda. Quando nel 1527 il loro disegno viene catastroficamente spazzato via dalle inarrestabili armate imperiali e dai lanzichenecchi trionfanti sul Papa Medici a Roma, evidentemente Il Principe nonavrebbe più potuto essere scritto; e del resto Niccolò, tanto per non lasciar dubbi in proposito ai posteri né doverne affrontare lui stesso, preferì sparire definitivamente dalla scena un mese e mezzo circa, dopo l’ingresso del Borbone a Roma (forse proprio perché si rendeva conto che nonavrebbe più potuto scrivere Il Principe e forse nessun’altra opera degna di quella?).
Insomma: Machiavelli vede, all’inizio di quella catastrofe, una possibilità ancora in atto di un’azione riparatrice, e la espone con il massimo dell’eloquenza possibile. Drammatico sì,non v’è dubbio; ma non tragico: perché qui la tragedia viene a posteriori, e Machiavelli, come chiunque altro, non era in grado di prevederla in quelle forme e dimensioni, perché se lo fosse stato il suo ragionare e prender parte sarebbero stati, lo ripeto, a loro volta semplicemente autodistruttivi (cioè, gli avrebbero tolto in tutto e per tutto la parola, e, di più, la ragione e la forza della parola).
L’ultimo capitolo, il sesto, dei Corrotti e gli inetti, s’intitola “L’Italia s’è persa” e proietta il ragionamento fino su questi nostri ultimi disperati decenni (diciamo, dalla Resistenza in poi fino ai nostri giorni, in caduta libera). Ci vorrebbe un’altra recensione per commentare a dovere questa parte del ragionamento. Anche in questo caso non si può non condividere il giudizio pesantemente negativo dei due autori. E però... E però, siamo ancora oggi prima del 1527 o dopo? Sembra che tutti, compresi (o a partire da) i nostri politici abbiano deciso che veniamo dopo. Ma Machiavelli c’insegna non solo a pensare e agire ma anche a sperare (senza di che un grande pensatore non è un grande teorico-politico ma un filosofo, eventualmente grande). Abbiamo bisogno, oggi come allora, di un Grande Politico. O almeno di un Politico. Il guaio è che, oggi, in forme diverse e molto più accentuate di allora, il politico non può fare a meno del consenso. E il consenso, si sa, abbassa tutto. E infatti: anche la volpe non ha più la forza di accompagnarsi con il leone e diventa vulpecula. Allora: questo è il problema.
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