«Il Principe» in esilio
Cinquecento anni fa Machiavelli
scrive la più famosa delle sue lettere
Il filosofo inaugura una stagione in cui la politica ha saputo interpretare, indirizzare e governare processi e conflitti economici e sociali
Quanto siamo lontani da lui oggi?
Luca Baccelli
“l’Unità “, 10 dicembre 2013
CINQUECENTO ANNI FA, IL 10 DICEMBRE 1513, NICCOLÒ MACHIAVELLI SCRIVE LA PIÙ FAMOSA DELLE SUE LETTERE. Racconta a Francesco Vettori la sua condizione di esiliato che passa le giornate a seguire il suo podere e a «ingaglioffarsi» all’osteria e le serate a leggere i classici e parlare con loro». E soprattutto annuncia di aver completato Il principe e la sua intenzione di donarlo a Giuliano de’ Medici, nella speranza che i nuovi signori di Firenze gli affidino un qualche incarico, «dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso».
Machiavelli ha passato gli anni dal 1498 al 1512 al servizio della repubblica di Firenze, ha svolto incarichi diplomatici di grande responsabilità e organizzato la milizia popolare. Caduto in disgrazia, si rivolge ai signori che lo hanno fatto incarcerare, torturare e poi esiliare rivendicando la sua competenza nell’«arte dello stato». Secondo molti si presenterebbe così come un puro tecnico della politica, disponibile a mettere la sua professionalità al servizio dei governanti di turno. È per questo scopo che avrebbe scritto un libretto che rientra nel genere letterario rinascimentale dei «consigli ai principi», avendo cura di introdurre strabilianti novità per attirare su di sé l’attenzione. Questa sorta di abiura, oltre che inutile per i destini personali di Machiavelli, si rivelerà temporanea: di lì a qualche anno Machiavelli tornerà a frequentare gli ambienti repubblicani, in particolare il circolo degli Orti Oricellari ai cui esponenti dedicherà i Discorsi.
Ma se Il principe è un esercizio letterario per ingraziarsi i Medici e ottenere un incarico, come spiegare l’impatto che questo libretto e poi le grandi opere teoriche e storiche hanno avuto sul pensiero politico occidentale? Lo stesso Machiavelli ci offre un indizio. Non voglio, scrive nella lettera dedicatoria, venire considerato presuntuoso perché, essendo «di basso ed infimo stato» mi metto a «discorrere e regolare e’ governi de’ principi». Per disegnare le pianure bisogna salire sui rilievi, e per disegnare le montagne guardarle dalla pianura; «similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare». È una dichiarazione di appartenenza, e sul bisogno che il principe, in particolare il «principe nuovo», il fondatore di un nuovo Stato, ha del popolo il testo ritornerà più volte.
NICCOLÒ E ANTONIO
Machiavelli, come è noto, dichiara «più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa». Fonda il realismo politico, e questo, secondo molti, significherebbe che la teoria politica deve essere «avalutativa», limitarsi a descrivere oggettivamente la realtà. Eppure Il principe si conclude con un’esortazione ai Medici a impegnarsi per la liberazione dell’Italia dal dominio straniero. Machiavelli adotta toni epici, evoca Ciro e Teseo e i miracoli che accompagnano la liberazione degli Ebrei guidata dal «principe nuovo» Mosè. Gli interpreti hanno discusso a lungo sull’effettivo significato dell’esortazione finale e molti hanno sostenuto che è un’aggiunta estrinseca.
Antonio Gramsci, recluso nel carcere di Turi, non aveva molti strumenti filologici a disposizione e viveva un isolamento assai più drammatico di quello sofferto da Machiavelli. In comune c’era la percezione di una triplice crisi: dell’Italia, di Firenze, personale per Machiavelli. Personale, dell’Italia, del movimento operaio, nel caso di Gramsci. Egli scrive che mentre «la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico», nell’invocazione finale di un principe nuovo che nella realtà storica non esisteva Machiavelli «si fa popolo, si confonde con il popolo».
Machiavelli prende le distanze dalla tradizione giusnaturalistica, per non dire dall’idea di un fondamento divino del potere, e introduce nuove categorie per una situazione nuova. Il suo realismo non è l’esclusione di principi e valori dalla politica; è la capacità creativa di individuare gli spazi di possibilità offerti dalla fortuna nel corso delle cose governato dalla necessità. Gramsci lo interpreta come una forma di educazione politica dei subalterni, perché chi appartiene ai gruppi dirigenti tradizionali il realismo politico lo acquisisce automaticamente.
Machiavelli critica l’immaginazione astratta degli stati che «non si sono mai visti né conosciuti essere in vero» ma risponde alla crisi con un sovrappiù di innovazione creativa. Inaugura così la politica moderna, la lunga stagione in cui la politica è stata capace di interpretare, indirizzare e governare i processi e i conflitti economici e sociali. Quanto siamo lontani da Machiavelli? È possibile oggi una tale immaginazione o la decadenza della politica è senza alternative, le decisioni vere si prendono altrove, sullo sfondo di una universale corruzione? Gramsci, da parte sua, insisteva sulla necessità dell’intervento politico consapevole per dare forma e indirizzo ai movimenti della società, per definire la volontà collettiva. E, come è noto, affidava questo compito al partito politico, incarnazione moderna del principe machiavelliano, «intellettuale collettivo». Ma qui, davvero, viviamo in un’altra epoca.
Perché la politica è vita (e viceversa)
Machiavelli e la lezione del “Principe” cinque secoli dopo
Roberto Esposito
“La Repubblica“, 10 dicembre 2013
L’elemento che forse più colpisce il lettore moderno di Machiavelli è la relazione indissolubile che egli istituisce tra politica e vita. Ad essa si può guardare da entrambi i versanti. Da una parte la vita ha sempre una connotazione in senso lato politica. Non esiste zona della vita umana sottratta alla necessità della politica. Senza di essa né gli individui né i gruppi resisterebbero al turbine di accidenti che ininterrottamente li percuote. Ma la relazione tra vita e politica non si ferma qui – alla protezione che la politica fornisce alla vita. Essa va guardata anche dall’altro lato: se è vero che la politica è necessaria alla vita, la vita è a sua volta la materia stessa della politica.
Quando Machiavelli parla del “vivere libero” o sostiene che «una repubblica ha maggior vita» del principato, bisogna prendere queste espressioni nel loro significato più intensamente letterale: esistono dei regimi politici più di altri capaci di restare vivi perché fin dall’inizio commisti con la vita, con i suoi bisogni, i suoi impulsi, i suoi desideri. Tra potere e vita non si dà mai distanza assoluta, scarto radicale. Come non esiste vita priva di una qualche configurazione politica, così non esiste un potere talmente assoluto da rapportarsi alla vita solamente dall’alto e dall’esterno. Per quanto isolato o puntuale, ogni potere affonda le proprie radici in un mondo istintivo e naturale non diverso, nella sua consistenza, da quello animale.
Per fornirne una esemplificazione testuale, si prendano le famose pagine del VII capitolo del Principe, dedicato alle vicende di Cesare Borgia. Esso si apre, come diversi altri brani machiavelliani, su una doppia possibilità alternativa – quella tra coloro che acquistano il dominio di un dato territorio per virtù e coloro che lo acquisiscono per fortuna. Machiavelli, come è caratteristico del suo metodo, tende a intrecciare tra loro le due tipologie. Il caso di Cesare Borgia, infatti, per quanto riconducibile all’ambito della fortuna per il ruolo giocato dal padre, il papa Alessandro VI, vede il Valentino mettere in campo una straordinaria virtù politica, naturalmente nel senso laico e spregiudicato che Machiavelli conferiva a questa parola. Cesare fece tutto ciò che dipendeva da lui per fondare e consolidare il proprio potere – un insieme di decisioni politiche, di opzioni strategiche, di azioni energiche quanto delittuose. E tuttavia ciò non gli bastò. Giunto all’apice del successo, egli è colpito, e distrutto, da quella stessa contingenza che ne aveva favorito la crescita impetuosa.
Ma l’elemento che in questo caso appare ancora più nuovo, rispetto a ricostruzioni più classiche, è il fatto che gli eventi che mutano catastroficamente i rapporti di forza a sfavore del Valentino si riferiscano soprattutto alla sfera della vita biologica e del suo rovescio mortale. A far perdere Cesare Borgia, nonostante la sua straordinaria virtù politica, è prima la morte del padre e poi la sua stessa malattia. In tutta la seconda parte del capitolo Machiavelli insiste con la massima intensità su questo scenario “biopolitico”: la «brevità della vita di Alessandro e la malattia» del Valentino occupano interamente la scena, imponendosi su tutti gli altri elementi del quadro.
Ciò che Machiavelli sottolinea è l’intreccio – appunto sfortunato – tra i due accadimenti. Se papa non fosse morto mentre il figlio si ammalava; o se Cesare fosse stato in buona salute alla morte del padre, si sarebbe potuto salvare. Ciò che lo condanna è la simultaneità dei due fatti. L’uno viene a caricare di un peso insostenibile l’altro. La vita – e la morte – dell’uno determina la vita e la morte dell’altro. Mai, prima di Machiavelli, questi termini – vita, morte, salute, malattia – erano penetrati con tanta forza nel lessico della politica. Mai prima di allora la politica era stata saldata con un nodo altrettanto stretto alla biologia. Perciò tutto il lessico di Machiavelli è pervaso da metafore, termini, immagini biologiche e mediche. Non solo il destino degli uomini politici, ma anche quello degli Stati è legato alle vicende, agli umori e alle peripezie del corpo.
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