A dicembre del 2013 saranno trascorsi 500 anni dalla scrittura del Principe; più esattamente, il 10 dicembre 2013 saranno passati 500 anni dalla stesura della formidabile lettera all’amico Francesco Vettori, in cui Niccolò Machiavelli comunicava di aver scritto «un opuscolo» sui principati… Da allora la politica non ha più smesso di fare i conti con quell’opuscolo e col suo autore.
Se arrivate dall’autostrada, o dal centro di Firenze, all’uscita dell’Impruneta (prima si chiamava Certosa) prendete la Cassia, e dopo 3 km voltate a destra per una via che si chiama degli Scopeti, dal nome dell’erica, che qui si chiama scopa. È una strada poco trafficata e dall’andamento romantico, di notte si incontra, se non il lione, spesso la volpe. La Casa di Machiavelli, a Sant’Andrea in Percussina, è dopo altri 3 km. Se arrivate da San Casciano, è a un paio di minuti. Di fronte c’è l’Albergaccio, trattoria e rivendita di vini. C’è un’etichetta dedicata al Principe.
Raccontare il luogo in cui fu scritto, cinque secoli fa, l’ «opuscolo» di Niccolò Machiavelli, è la cosa più facile e insieme più difficile, perché lo raccontò lui stesso a Francesco Vettori, oratore di Firenze a Roma, e suo amico. La lettera viene di norma ammannita agli scolari italiani, che poi ne conservano almeno i tratti più pittoreschi. Machiavelli sovrintende ai lavori del bosco, gioca a trichetrac e s’ingaglioffa di là dalla strada, rientra, chiude la Fortuna fuori dalla porta del suo scrittoio, si riveste dei panni curiali degni del suo Tito Livio e per quattro ore eccetera. È uno dei brani più belli dell’intera letteratura. È così bella che vien voglia di usare, più che la lettera per introdurre il Principe, il Principe per illustrare la lettera. Quando si annunciarono le celebrazioni del cinquecentenario del Principe, qualcuno, anche il più autorizzato per lunga fedeltà, Gennaro Sasso, obiettò, pur senza guastare la festa, che la data di composizione del trattato era troppo aleatoria. Allora bisognava avere più coraggio, e celebrare i cinquecento anni dalla stesura della lettera al Vettori, 10 dicembre del 1513.
Machiavelli vi annuncia di aver scritto il suo opuscolo sui principati. L’occasione gli è venuta dal suo corrispondente, il quale gli ha descritto una sua giornata tipo nella Roma papale, per sottolinearne monotonia e sobrietà. La risposta di Machiavelli è quasi una ritorsione: se è noiosa la tua giornata romana, sta’ a sentire com’è la mia. Il madornale fraintendimento – anzi non uno: mille – che di Machiavelli il mondo ha fatto, non sarebbe stato possibile se i suoi lettori precoci, specialmente fuori d’Italia, avessero conosciuto anche solo questa lettera. Ma fu pubblicata solo nel 1810, tre secoli dopo, e le altre al Vettori e ad amici e famigliari solo nel 1813. Da allora fu menzionata in tutte le opere di e su Machiavelli, e tradotta in ogni lingua. Machiavelli aveva scritto proprio così, a Vettori: «Chi vedesse le nostre lettere, onorando compare… si maraviglierebbe assai…».
Il giurista ugonotto Innocent Gentillet, che pubblicò nel 1576 il primo «Anti-Machiavelli» – un filone destinato a larga fortuna – non aveva idea della vita e delle opere dell’autore, se non che fosse «florentin», aggettivo che da allora definì la losca scaltrezza politica, fino a François Mitterrand, che però la ammirava. Machiavelli passò per il demonio in persona, o per un suo inviato speciale, lui che aveva fatto di Belfagor un povero arcidiavolo ansioso di fuggire la terra e la moglie per tornarsene al quieto vivere infernale. Gli inglesi lo associarono al diavolo, il Vecchio Nick. Però anche i villani di Sant’Andrea in Percussina, alla fine dell’Ottocento, raccontò il biografo Tommasini, dicevano che nella casa abitava il diavolo, e nessun cristiano ci voleva stare.
A Sant’Andrea Machiavelli e la brigata famigliare (la sua Marietta gli diede sette figli, lui fu affezionato a loro e a lei, e la tradì ogni volta che poté) si trovano perché lui, cacciato dall’incarico tenuto per 14 anni, è confinato per un anno. In questo tempo supplementare, costretto a starsene con le mani in mano, inutile perfino a «voltolare un sasso», Machiavelli scrive il Principe, e guarda la città da lontano. La casa, quando ci andrete, è su un poggio, se ne scorgono la cupola di Brunelleschi e il campanile di Giotto, e anche, dove non ci siano i cipressi a coprirla, la torre di Palazzo Vecchio: chissà se un esilio dal quale si scorgano a ogni passo le cime della propria città sia meno doloroso di uno che la tolga agli occhi. Nelle colline tutto attorno a Firenze basta alzare la testa per vedere la cupola, e sentirsi rassicurati. Lo stolido messer Nicia, nella Mandragola, non vuole portare la moglie ai bagni, perché non se la sente di perdere d’occhio la cupola di Santa Maria del Fiore.
La proprietà di Machiavelli risaliva al Duecento, non era ricca, e lui la lasciò indebitata: più tardi sarebbe passata ai Serristori, che raddoppiarono la casa, diedero lustro al vino, dilapidarono quasi tutto, e oggi la proprietà è di un Consorzio Italiano Vini. Dei Serristori d’oggi, un Averardo abita ancora a San Casciano, e racconta con buonumore della nonna ultima reggente della casa di Machiavelli, che la dotò di arredi e memorie, e vi torna da fantasma. Le cantine della casa passano sotto la strada e portano da una valle all’altra, dal versante verso Cerbaia a quello verso Impruneta e Greve.
«E, se Vostra Magnificenzia dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhi in questi luoghi bassi…»: Vostra Magnificentia, Lorenzo de’ Medici, sta in Palazzo, nel centro di Firenze. L’altitudine del crinale di Sant’Andrea è di 255 metri, duecento di più del centro di Firenze. Luoghi bassi e alti si danno il cambio, fra metafora e realtà. Quando vi fermerete anche voi a guardare dalla strada la cupola di Santa Maria del Fiore, come la guardava Niccolò, rileggete il brano che quasi conclude la dedica del Principe:
«Né voglio sia imputata prosunzione /che sia accusato di presunzione/ se uno uomo di basso e infimo stato ardisce discorrere e regolare /esaminare e dettar regole/ e’ governi de’ principi; perché così come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ luoghi bassi si pongono alto sopr’a’ monti, similmente a cognoscere bene la natura de’ populi bisogna essere principe e a conoscere bene quella de’ principi conviene essere populare /del popolo/».
Immagine magnifica, che fa pensare ai misuratori col teodolite, invenzione di quel secolo, ed è stata accostata all’orgoglio per la scoperta quattrocentesca della prospettiva lineare, e alla fama di Leonardo, cartografo e pittore di paesaggi (la celebre mappa «aerea» di Imola è al centro di un giallo texano intitolato «La congiura di Machiavelli»). Noi, più terra terra, l’accosteremo all’esperienza del confinato che guarda dall’alto in basso la sua città proibita, è forzato a «prenderne le distanze», e si decide a svelare la natura dei principi che ha guardato per tanti anni dal basso in alto, ma da vicino. Ora «da una posizione periferica e marginale, qual era quella di Machiavelli nel 1513-1514», come scrive Carlo Ginzburg che ha ragionato su distanza e prospettiva; da quella posizione rialzata e obbligata, aggiungiamo noi. Machiavelli deve attenuare l’arditezza della metafora in cui rivendica di conoscere il principe come il principe non può conoscere se stesso. Allora ha simulato con falsa modestia di essere uno del popolo, di quelli che guardano dal basso al principe. In realtà non solo la sua mente, ma la sua esperienza di «segretario» – letteralmente, custode di segreti – l’ha messo per così dire in una posizione terza, e più vicina all’orecchio del principe che non al popolo, e ora l’ha risospinto in basso verso il popolo la disgrazia improvvisa, che lo fa intrattenere coi suoi «pidocchi», il beccaio e il fornaio e il legnaiuolo, e lo risolleva di notte pascendolo del cibo che solum è suo. Questo trasforma la posizione «periferica e marginale» di Machiavelli in una centrale: quello che lui ora, caduto, può conoscere del popolo e del principe è una prerogativa singolare della sua impotenza. Gli compete, in cambio della frustrazione, una rivelazione.
Una gentile Lucia guida alla visita di casa e cantine, e arriva anche a soccorrere visitatori smarriti nel contado: anche un coreano che non smetteva di scusarsi dell’emozione di trovarsi davvero nello studio di Machiavelli, e ora manda lettere grate ed edizioni coreane del Principe – devono averne fatte letture assai diverse, a Seul e a Pyongyang. Dice Michael Ledeen che quando la guerra arrivò all’altezza di San Casciano il generale Mark Clark per gli americani e il maresciallo Kesselring per i tedeschi concordarono di risparmiare i campi di Machiavelli: se è vero, è una notizia bella e raccapricciante.
In effetti, quando siete nello studio in cui si immagina che Machiavelli scrivesse, col grande camino e lo stemma dei chiodi, i «mali clavelli», vi prende, anche se siete vecchi e scafati, un impulso infantile di sedervi allo scrittoio, quando Lucia non guarda, e mettervi su i gomiti, e vedere se non vi venga qualche idea sulla politica e la malignità dei tempi. Niente di male nell’immaginarsi nei panni altrui, se non si insista più di tanto (allora si diventa pazzi o impostori, o tutt’e due). Di tutti i misteri supposti di Machiavelli questo è il più chiaro: che quell’uomo di genio smanioso di fare, non toccando a lui una prima parte, si fece consigliere del principe e dell’amante, del ventenne Valentino, come nel trattato, o del trentenne Callimaco, come nella Mandragola. E non si preoccupava di nasconderlo, di mettersi nei loro panni. Nemmeno in quelli del papa, come in una lettera al Vettori: «Mi sono messo nella persona del papa …», «se io fussi il pontefice…». E se ne immedesima a tal punto che passa senz’altro alla prima persona: «Quanto alla guerra che mi facesse ritornare in quelli sospetti… Quanto all’accordo, sarebbe quando Francia accordasse con Inghilterra o con Spagna senza me»… Scriveva così sapendo, e sperando, che la lettera fosse mostrata al papa, e che gli facesse da referenza: ma perfino un papa avrebbe diffidato di quell’invadenza. Questo vuole toglierci il posto, avrebbe pensato, a me e all’imperatore e a tutti.
Nel proemio dei Discorsi lo dichiara, quasi ingenuamente: «Gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu /cioè lui, Machiavelli/ non hai potuto operare, insegnarlo ad altri…». Strepitosa rivendicazione, d’esser uomo buono, e maestro altrui del bene che avrebbe potuto fare lui, se non si fosse messa di traverso la fortuna e i tempi avversi. E in amore, nella Mandragola, dietro il Ligurio che assicura a Callimaco che gli farà conquistare Lucrezia e giacere finalmente con lei, c’è un Machiavelli-Cyrano: «non dubitare della fede mia, ché, quando non ci fussi l’utile, ci è che ’l tuo sangue si affà col mio, e desidero che tu adempia questo tuo desiderio presso a quanto tu». Dice: quasi quanto te, e vuol dire più di te stesso. Sottovalutano Ligurio, molti lettori, ma Niccolò è lui – «Io voglio essere el capitano, ed ordinare l’essercito per la giornata» – e Callimaco stesso, innamorato e fortunato, è contento di farsene tirare i fili, e ordina al servo Siro: «E fa’ conto, quando e’ ti comanda, che sia io». E l’ignobile frate Timoteo commenta: «Questo diavolo di Ligurio».
A Vettori innamorato di una bella romana Machiavelli, che suonava e cantava, scrisse: «Et se voi gli volesse fare una serenata, io mi offero a venire costì con qualche bel trovato per farla innamorare».
Postilla. Mi dispiace un po’ fare la spia, ma secondo Roberto Ridolfi e sulla sua scorta Renato Stopani, che ha dedicato all’Albergaccio un volume, «Io mi sto in villa…» (1998), la «Casa di Machiavelli» che ho appena descritto e devotamente visitato non è la vera «casa da padrone» di Bernardo e Niccolò, che stava invece dall’altro lato della strada, addossata all’osteria. Per il catasto Bernardo la descriveva come «una casa posta in decto popolo /di Sant’Andrea/ a muro comune col decto albergho, chiamata per l’addietro l’alberghaccio…». Scrive il classico biografo Ridolfi:
«Una piccola chiesa parrocchiale, una casa a uso d’albergo, e, a muro con quella, una casa da signore, come allora dicevasi, che si direbbe meglio una casa da poveri; un poco di torricella scoperta, con più casolari a ridosso, e altri di là dalla strada a uso di fattoio da olio, di forno, di capanna, di stalla /…/ La casa da signore è nominata l’Albergaccio, da quella che le sta addosso; e questo vocabolo ci dice abbastanza la qualità dell’una e dell’altra».
Nel 1522, quando Niccolò dettò il suo testamento, l’Albergaccio aveva già smesso di fare da albergo, per il traffico diminuito sulla strada romana, e restava l’osteria. Gli «altri casolari di là dalla strada» furono «inglobati dal settecentesco edificio della Fattoria Serristori» e sono quelli che, aiutati anche dalla lapide risorgimentale apposta per sbaglio sul loro lato, nel quarto centenario della nascita, fungono oggi dignitosamente da Casa di Machiavelli.
Non è grave: lui non se la sarebbe presa. Una volta un frate di Santa Croce denunciò a Niccolò che nella sua tomba di famiglia erano state collocate abusivamente altre salme, perché le rimuovesse, e lui avrebbe risposto:
«Deh, lasciateli fare, perché mio padre era amico della conversazione, e quanti più andranno a trattenerlo, tanto più piacere ne avrà».
«E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire».
Ristretto com’è in quel borghetto mortificato, Machiavelli riempie la corrispondenza di cose che chiameremmo di politica estera, o piuttosto di politica mondiale, rispetto al mondo di cui gli arrivava notizia, e poco fa se n’era scoperto uno nuovo. È impressionante come potesse raccogliere informazioni sui movimenti delle potenze europee o del turco, dai pochi visitatori cittadini o dai passeggeri. Solo, esiliato, somiglia davvero a un prigioniero, o a un poeta, che la ristrettezza soffocante induce a guardare il più lontano possibile. Non si rassegna a perdere d’occhio, lì «al buio», il mondo grande. Le parole più belle, a dire questo, le trova Vettori, scherzando, ma non tanto: «… disiderrei essere con voi, et vedere se noi potessimo rassettare questo mondo, et, se non il mondo, almeno questa parte qua».
Benedetto Varchi, di una generazione più giovane, lamentò la vita leggera di Machiavelli: «Se all’intelligenza che in lui era de’ governi degli Stati, e alla pratica delle cose del mondo, avesse la gravità della vita aggiunta, si poteva… agli ingegni antichi paragonare». È curioso come il giudizio somigliasse a quello che Machiavelli aveva dato di Lorenzo il Magnifico, signore splendido, benché «nelle cose veneree maravigliosamente involto» (e lui poteva capirlo) e in giochi puerili, tanto che «molte volte fu visto, intra i suoi figliuoli e figliuole, intra i loro trastulli mescolarsi». Sicché, «a considerare in lui la vita voluttuosa e la grave, si vedeva essere in lui due persone diverse». Di questa duplicità, che a noi rende simpatico Lorenzo, Machiavelli era un campione consapevole: la sua vita in villa divisa fra il giorno leggero e la notte grave; e il suo principe doveva avere dell’uomo e della bestia, come il centauro; e della bestia doveva tenere del lione e della golpe, e così via. In un’altra bellissima lettera al Vettori lo dice così, di sé e del suo corrispondente:
«Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare, et vedesse le diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti vòlti a cose grandi, et che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, inconstanti, lascivi, vòlti a cose vane. Questo modo di proccedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia».
Del resto, come attenersi alla gravità, usciti dalla notte trascorsa – come in una camera iperbarica: la morte là non lo sbigottisce – con Tito Livio e Senofonte, che prescrive al Principe di «stare sempre in su le cacce», per andare carico di gabbiette a uccellare tordi nel boschetto di casa?
E comunque pensateci due volte prima di dire che per Machiavelli la politica è tutto:
«Standomi in villa, io ho riscontro in una creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile che io non potrei né tanto laudarla, né tanto amarla, che la non meritasse più. Harei a dire i principii di questo amore, con che reti mi prese, dove le tese, di che qualità furno; et vedresti che le furono reti d’oro, tese tra fiori, tessute da Venere, tanto soavi et gentili, che benché un cuor villano le havesse potute rompere, nondimeno io non volli, et un pezzo mi vi godei dentro, tanto che le fila tenere sono diventate dure, et incavicchiate con nodi irresolubili… Bastivi che, già vicino a cinquanta anni né questi soli mi offendono, né le vie aspre mi straccano, né le obscurità delle notti mi sbigottiscano… Et benché mi paia essere entrato in gran travaglio, tamen io ci sento dentro tanta dolcezza… che per cosa del mondo, possendomi liberare, non vorrei. Ho lasciato dunque i pensieri delle cose grandi et gravi; non mi diletta più leggere le cose antiche, né ragionare delle moderne; tutte si sono converse in ragionamenti dolci; di che ringrazio Venere et tutta Cipri».
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