Noi, inventori della storia dell'arte
Salvatore Settis, "Il Sole 24 ore", 21 ottobre 2012
Fare «storia dell'arte» non è ovvio. Tutte le civiltà umane hanno prodotto "arte", pochissime hanno prodotto anche una narrazione di eventi dell'arte. Perciò ha senso la domanda: come nacque la storia dell'arte?
Nella tradizione occidentale la storia dell'arte è solo una parte della "letteratura artistica", un ambito assai più vasto che include i trattati sui colori o l'iconografia (come la Schedula diversarium artium di Teofilo), gli scritti di topografia artistica come i Mirabilia Urbis Romae e le descrizioni di immagini in poesia e in prosa (ekphrasis).
La produzione di "opere d'arte", che spesso ebbero funzioni miste (magiche, religiose, estetiche, politiche) è propria di tutte le culture umane conosciute. Poche civiltà, tuttavia, hanno sviluppato una qualche forma di "storia dell'arte", e cioè uno specifico genere letterario che disponga in narrazione storica le vite degli artisti e le loro opere.
Nella Kunstliteratur di Julius Schlosser vengono indicati quali incunaboli della storia dell'arte i tre Commentarii di Lorenzo Ghiberti (1450 circa), che contengono biografie di artisti, organizzate secondo una parabola evolutiva, il cui inizio nell'antichità greco-romana – tolto dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio – è delineato nel primo Commentario.
Ma già nel Medio Evo vennero citate notizie sulle arti tratte da Plinio. In particolare Petrarca, che nel 1350 comperò a Mantova un manoscritto della Naturalis Historia e a margine di questo tracciò di suo pugno un disegno simbolico di Roma accompagnandolo con queste parole: «Non ci fu mai nulla di così mirabile in tutto il mondo». Nello stesso anno acquistò anche un manoscritto dell'Institutio oratoria di Quintiliano. Egli fu il primo a tentare creativamente la lettura combinata dei testi antichi (specialmente Plinio e Quintiliano) per intendere il lavoro degli antichi maestri. Nel trattato De remediis utriusque fortunae, Petrarca inserì un capitolo de tabulis pictis e uno de statuis, attingendo a Plinio e a Quintiliano e cogliendo i punti in comune fra loro.
Al primo traduttore di Plinio in volgare, Cristoforo Landino (1476), si devono concise notizie sugli artisti (specialmente fiorentini) nei suoi commenti a Orazio e a Dante. Una conoscenza di Plinio (ma anche di Vitruvio) è il presupposto di ogni altro scritto del Quattro e Cinquecento italiano, come ad esempio il Libro di Antonio Billi (ante 1520) o l'Anonimo Magliabechiano (ante 1542). Fra Quattro e Cinquecento, abbozzi storici ed elenchi di artisti e di opere si vanno facendo dappertutto, sempre con forte marca locale: basti richiamare i gusti della corte di Napoli rispecchiati nel De viris illustribus di Bartolomeo Facio ( 1456 circa), il poema in terza rima del padre di Raffaello, Giovanni Santi, le liste romane di Raffaello Maffei (1506), e a Venezia il cantiere incompiuto di Marcantonio Michiel (che su Napoli si informava dal suo corrispondente Pietro Summonte, 1524).
Un posto a parte occupano le originali proposte teoriche di Leon Battista Alberti, che nel De re aedificatoria (c. 1452) gareggia con Vitruvio, mentre nel De pictura (c. 1435) e nel De statua (c. 1440), pur non offrendo un profilo storico dell'arte, ne presuppone un'ossatura di stampo pliniano.
Questi ed altri esperimenti confluirono nel testo-cardine di Giorgio Vasari, le Vite. Facendo centro in Firenze, esse dispiegarono, nella prima e ancor più nella seconda edizione (1550, 1568) un disegno di ampiezza non prima udita. L'immediata e ininterrotta fortuna di questa opera, unita alla folla di "precedenti" che se ne possono indicare, indicano quanto essa rispondesse alle attese di un pubblico colto.
Su questo modello italiano di storia dell'arte in senso evolutivo e biografico (proseguito con le Vite del Baglione, del Passeri, dei Baldinucci) sono esemplati gli scritti del resto d'Europa, come lo Schilderboek di Karel van Mander (1604), gli Entretiens sur les vies et les ouvrages des plus excellens Peintres di André Félibien (1666-88), la Teutsche Akademie di Joachim von Sandrart (1674), El Parnaso español pintoresco laureado di Antonio Palomino (1724).
Una narrazione che assorbisse le biografie individuali entro la vasta cornice di uno sviluppo artistico unitario si ebbe solo con la Geschichte der Kunst des Alterthums di J. J. Winckelmann (1764). Di essa è notevolissimo l'impianto teorico, ma forse ancor più il fatto che, pur limitandosi alla storia dell'arte antica, essa segnò di fatto la nascita di una nuova storia dell'arte, antica ma non solo, nutrita d'erudizione antiquaria ma ispirata da intenti etici e pedagogici che trovarono vasta risonanza in tutta Europa.
E infatti il vasto affresco, organizzato per scuole, della Storia pittorica della Italia di Luigi Lanzi (1792-96) molto deve all'incrocio fra Vasari e Winckelmann. Da qui sono partite le linee evolutive che arrivano fino ad oggi.
Ma la storia dell'arte non nasce né con Winckelmann né con Vasari né con Ghiberti. Attraverso Plinio, tutti questi autori (e molti altri) risalivano infatti al modello della più antica letteratura di "storia dell'arte", nata nella Grecia classica prima nella forma di trattati tecnico-giustificativi (così per esempio il trattato sul Partenone del suo architetto, Ictino; o quello di Policleto su una sua statua, detta Canone), poi con libri sulla pittura e la scultura, scritti a volte da artisti (come Senocrate di Atene), a volte da intellettuali "conoscitori" (come Duride di Samo). In tal modo il discorso sull'arte, che si era sviluppato nelle botteghe degli artisti, entrò nello spazio letterario, rivolgendosi a un pubblico potenziale non di soli artisti, adottando convenzioni espositive e frasario tecnico dedotti dalla techne dominante nell'orizzonte culturale: la retorica.
Un forte movente di questo nuovo "genere" letterario, che si sviluppa nella Grecia ormai dominata dalle monarchie ellenistiche, è la nostalgia per la forma politica della polis, e insomma una visione retrospettiva dalle storia. Anche se quei testi sono tutti perduti, le citazioni delle fonti classiche (Plinio, Vitruvio, Quintiliano) ne hanno tramandato i tratti essenziali alle generazioni successive. La storia dell'arte dei moderni (e anche la nostra) è, insomma, figlia dei Greci.
Le principali linee portanti del discorso storico-artistico, infatti, sono tutte già ben attestate nell'antichità. Elenchiamole brevemente:
(1) l'idea di uno sviluppo storico, o "progresso", dell'arte, che talvolta si accompagna a quella, simmetrica, del suo fatale declino;
(2) la suddivisione degli artisti per scuole regionali;
(3) la distinzione e la definizione di personalità artistiche individuali, con le pratiche connesse: biografia, discendenza di bottega, attribuzione;
(4) il giudizio di qualità, coi relativi linguaggi;
e infine (5) la descrizione (ekphrasis) di opere d'arte.
Domandiamoci, per finire, a che cosa serva la storia dell'arte. La risposta è semplice: come tutte le scienze (e in particolare le scienze storiche) serve per capire. Serve per capire un mondo come il nostro inondato da immagini senza subirle passivamente, sapendone smontare e ricostruire i meccanismi di persuasione.
Perché se rinunciamo a capire, faremo come i ciechi della parabola illustrata da Brueghel in un bellissimo quadro conservato a Capodimonte: quando un cieco guida l'altro, tutti cadono nella fossa.
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