La storia dell’Urbe tra dominio e integrazione raccontata in un’esposizione allestita al Colosseo e al Foro romano.
Il destino di Roma città aperta racchiuso nel mito di Romolo
di Maurizio Bettini, "La Repubblica", 10 ottobre 2012
Quintiliano afferma che «l’antichità produce molta autorità, come accade a coloro che si dice siano nati dalla terra». Ecco un genere di auctoritas che i Romani non si sono mai sognati di reclamare. Al contrario, nel latino colloquiale l’espressione “nato dalla terra” veniva usata per indicare un individuo di nessuna importanza, un “figlio di nessuno”, come diremmo noi. Di sicuro gli Ateniesi, che si volevano nati direttamente dal suolo dell’Attica (fieri della loro “autoctonia”, come la chiamavano), non avrebbero apprezzato questo modo di dire. Lungi dal dichiarare di essere nati dalla terra laziale, i Romani preferivano descriversi come discendenti di un gruppo di Troiani che si erano fusi con la popolazione laziale, secondo la versione del mito resa celebre da Virgilio; in seguito questi discendenti di matrimoni misti avevano fondato prima la città di Lavinium, poi quella di Alba Longa. Dopo di che, da Alba due gemelli si erano a loro volta staccati per fondare una nuova città, Roma – ma solo per popolarla di uomini venuti a loro volta da ogni parte, proclamando apertamente che la nuova città aveva natura di asylum.
«Dalle popolazioni vicine » scriveva Livio «confluì una turba indiscriminata – non importava se fossero liberi o schiavi – gente bramosa di novità, e questo fu il nerbo della futura grandezza». Il nerbo della magnitudo romana – quella “grandezza” che per i Romani corrisponde alla loro stessa identità – si fonda sulla commistione di uomini venuti da fuori. Roma è già ai suoi albori una città aperta.
Ora una mostra parte dal mito fondativo della città per ripercorrerne le tappe, dalla conquista dell’Italia, all’espandersi del potere nelle province più lontane, fino alla creazione di quello straordinario melting pot religioso e culturale che è stato l’Impero. Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, (promossa dalla Soprintendenza ai Beni archeologici, curata da Andrea Giardina e Fabrizio Pesando) attraverso un centinaio tra sculture, bassorilievi, mosaici, calchi, suppellettili, racconta l’unicum che fu l’avventura di Roma nella storia. La mostra si articola in tre sedi espositive: il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio del Divo Romolo nel Foro romano, che ospita un’interessante appendice dedicata al mito moderno della città: dall’uso politico che ne fecero le rivoluzioni e le dittature, all’uso spettacolare che ne fece il cinema.
Ma in che modo i Romani immaginarono il momento cruciale della propria origine, la fondazione della città? Ce lo racconta Plutarco. Dunque Romolo «scavò una fossa di forma circolare nel luogo dove sta ora il Comitium, in cui furono deposte le offerte di tutto ciò che è bello secondo la consuetudine e di tutto ciò che è necessario secondo la natura. Poi ciascuno gettò nella fossa una porzione della terra da cui proveniva, dopo di che le mescolarono. Chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, cioè mundus.
In seguito, prendendo questa fossa come centro tracciarono in cerchio il perimetro della città. Il fondatore attaccò al suo aratro un vomere di bronzo, vi aggiogò un toro e una vacca, ed egli stesso li conduceva, tracciando un solco profondo secondo la linea dei termini… Con questa linea definiscono il perimetro del muro, e la parte che sta dietro o dopo il muro viene chiamata per sincope pomoerium».
Inutile dire che la fossa scavata da Romolo, il mundus, è caricata di un grande significato. In essa vengono infatti gettati sia prodotti della cultura (la “consuetudine”), sia prodotti della natura, a significare la creazione di una nuova civiltà. Inoltre in questa fossa vengono gettate zolle tratte dalle rispettive terre patrie di coloro che si sono uniti a Romolo. Questo rimescolamento di terre venute da lontano, e fuse con il suolo laziale, rispecchia perfettamente il rimescolamento di uomini che caratterizza l’asylum. Accogliendo zolle tratte da altri territori, il suolo della città diventa specchio degli uomini che lo calpestano, terra “mescolata” così come “mescolati” sono i futuri abitanti della città. È evidente che questa rappresentazione ha un forte significato politico. Descrivendo la nascita della città come un rimescolamento di terre disparate e come una fusione di uomini dalle origini altrettanto disparate, i Romani mettono in evidenza uno dei caratteri principali della loro cultura: ossia l’apertura verso gli altri. Non a caso Roma è una città in cui non solo gli stranieri, ma perfino gli schiavi possono ottenere la cittadinanza.
Naturalmente, l’altra faccia della medaglia è la volontà di potenza dell’urbe: e il suo destino è ben racchiuso nel celebre verso virgiliano che la descrive come «città destinata a parcere subiectis et debellare superbos».
Lo cita la soprintendente Mariarosaria Barbera nel catalogo Electa, aggiungendo che «alcuni secoli più tardi, all’indomani del terribile sacco di Alarico, Rutilio Namaziano ricorda la stupefacente capacità di amalgamare popoli e civiltà (fecisti patriam diversis de gentibus unam).
Tale doppia natura emerge chiarissima nel confronto tra il concetto di “patria comune a tutta la terra”, proposto dal retore Elio Aristide; e quello, assai più famoso, del “deserto che [i Romani massacratori] chiamano pace”, riportato da Tacito nel celebre discorso antiromano del capo Britanno Calgaco (Agricola 30)».
In mostra è testimoniato un passaggio chiave del sistema Roma: quello che i curatori chiamano “Il manifesto dell’integrazione romana” e cioè il discorso che l’imperatore Claudio fece perché il Senato ammettesse i maggiorenti delle tre Gallie. La lapide dell’orazione e la scultura dell’imperatore (proveniente dall’Archeologico di Napoli) sono esposti nella Curia Iulia.
Ma torniamo alla fossa scavata da Romolo al centro della fondazione: la cosa interessante è che porta il nome di mundus, cioè “mondo”. D’altronde gli autori romani, per esempio, sottolineano con una certa enfasi il carattere di orbis, di “cerchio”, che caratterizza il tracciato di fondazione; e anzi mettono in risonanza questa parola con il termine urbs, quasi che il cerchio / orbis e la città / urbs fossero la stessa cosa. Ma orbis non è forse la parola che designa anche l’orbis terrarum, il mondo intero? A questo punto, però, la cosa migliore è tornare a quella fascia circolare, chiamata pomoerium, che secondo il racconto di Plutarco corrispondeva direttamente al tracciato del solco scavato da Romolo. La cultura romana attribuiva una grande importanza al pomoerium.
Questa zona costituiva il confine religioso della città, con particolare riferimento al rapporto fra le attività militari e quelle civili. La cosa interessante però è che, secondo “un costume antico”, come lo definisce Tacito, il comandante che aveva ampliato i confini dell’impero aveva il potere di ampliare anche quelli del pomoerium: tanto che «il pomoerium si ampliò in proporzione alla fortuna di Roma». Dunque il pomoerium è messo direttamente in corrispondenza con i confini dell’impero. Nella concezione romana, marcando il pomoerium Romolo anticipa, o meglio pre-disegna anche lo spazio esterno di cui i Romani, in proporzione alla loro crescente fortuna, sono destinati a impadronirsi. Questo rapporto scalare fra pomoerium da un lato, e terre conquistate dall’altro, fa probabilmente da sfondo a certe dichiarazioni dei poeti augustei secondo cui la Urbs romana si identifica davvero con l’orbis terrarum. Basterà citare questo distico di Ovidio: «ad altre genti è data una terra segnata da un limite certo: ma lo spazio dell’Urbs romana è lo stesso dell’orbis».
“Roma Caput Mundi - Una città tra dominio e integrazione”, Colosseo - Foro romano, Roma, fino al 10 marzo 2013.
Ma l’Impero caduto colpisce ancora. L’Urbe usata da re, dittatori e, infine, dai registi
di Marino Niola
Roma è l’esempio di quel che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo. Nel geniale paradosso di Andy Warhol c’è la chiave del mito della città eterna. Un mito senza data di scadenza, proprio come le sue rovine. Che alimentano da tempi immemorabili l’immaginario del mondo. Facendo del Colosseo e delle Terme di Caracalla, dei Fori e di Ponte Milvio, del Campidoglio e della Domus Aurea altrettanti luoghi dell’anima. Si può dire che, ancor più di Roma in sé, a produrre da sempre mitologia sia Roma in noi. È dalla fondazione della città, nata dal duello mortale tra i fratelli coltelli Romolo e Remo, che i colli fatali dell’Urbe diventano lo sfondo che dà senso alle diverse vicende degli uomini e delle nazioni. Grandezza e decadenza, virtù e vizi, sobrietà e corruzione, democrazia e tirannide, repubbliche e imperi. Opposti che trovano nella romanità una coincidenza. E nelle sue rovine un’allegoria dai mille significati. Forse perché, come diceva Goethe, quelle vestigia sono di una magnificenza e di uno sfacelo tanto straordinari da diventare entrambi emblematici. Ecco perché il cristallo capitolino non ha mai smesso di brillare e proietta i suoi bagliori fino a noi. Già da quando i Visigoti di Alarico mettono a sacco la città nel 410 dopo Cristo scrivendo la parola fine sul dominio imperiale quirita. Ma come è noto, l’impero colpisce ancora. E comincia a farlo da subito trasferendosi armi e bagagli in Oriente, nella Costantinopoli di Giustiniano, il sovrano illuminato che prende in mano la grande eredità giuridica latina e regala al mondo quel corpus iuris che è la base dei diritti moderni.
Insomma, Roma è il mito politico per eccellenza, buono per tutte le stagioni, da Cesare a Mussolini. Non a caso l’astuto Carlo Magno, re dei Franchi, si fa incoronare imperatore del Sacro romano impero proprio nella chiesa di San Pietro, la notte di Natale dell’800 dopo Cristo. E la stessa cosa faranno gli imperatori di Germania, in primis Federico II, dopo il fatidico giro di boa dell’anno Mille che chiude la lunga notte del Medioevo barbarico e inaugura l’attesa della rinascita umanistica. Che avviene sotto il segno di una Roma dalla doppia anima. Che mette insieme la sua nascita pagana e la sua rinascita cristiana. L’uccisione di Remo che fonda la città e il martirio di Pietro che la rifonda. Con il papa che prende il posto dell’imperatore. Il cristianesimo insomma cambia l’immagine della città, da caput mundi a caput ecclesiae.
Traducendo in termini nuovi il destino universalista che lega a doppio filo l’urbe e l’orbe. Roma è un sogno che la chiesa custodisce tenacemente. Sono parole di Leo Longanesi che riecheggiano alla grande nelle oniriche sagome cardinalizie che attraversano il cinema di Fellini. Ed è proprio il grande schermo a rimettere in moto la macchina del mito romano. Con capolavori come Ben Hur e Quo vadis?, kolossal hollywoodiani in cui l’America vittoriosa nella seconda guerra mondiale si identifica con i martiri cristiani vittime del dispotismo pagano. Rappresentato da un Nerone in camicia nera che si gode cantando lo spettacolo di Roma in fiamme. L’allusione alla romanità fascista non poteva essere più chiara. Come dice Andrea Giardina nel suo bellissimo libro su Roma dopo Roma, sarà proprio il generale Clark, capo dell’esercito di liberazione, a mettersi nei panni di Cesare entrando da trionfatore in Roma dall’Appia antica. Senza trascurare di fermarsi ad ammirare i monumenti che la punteggiano. È la città aperta che inizia la sua conversione in mito turistico. Final destination delle vacanze romane.
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