Alla ricerca del lato imprevedibile della scienza
Intervista a Giulio Giorello di Gabriele Beccaria
"La Stampa - TuttoScienze", 24 ottobre 2012
Molti hanno visto cadere le mele, ma solo un tale Isaac Newton ha capito che di mezzo c’era la gravità. Quasi due secoli dopo, il fisico inglese John Tyndall definì quel salto concettuale un atto di «prepared imagination». La razionalità scientifica, in effetti, è più sofisticata di quanto a volte suggeriscano provette e formule. Ed è questo il tema da cui sbocceranno gli incontri con i ricercatori al Festival della Scienza di Genova.
Professor Giulio Giorello, lei è un filosofo della scienza, e nella sua lezione del 3 novembre affronterà la questione, sempre più d’attualità, degli intrecci ragione-fantasia: oggi, quando vogliono trasformarsi in divulgatori, gli scienziati sfruttano sempre più abilmente il potere delle immagini e delle provocazioni intellettuali.
«Mi viene in mente il nuovo saggio del neuroscienziato Kevin O’Regan, che è immaginifico già dal titolo: “Perché i colori non suonano”. L’autore spiega che, se si mescolano due colori, il risultato è un colore nuovo, privo in apparenza di quelli originali, a differenza di di quanto accade invece con gli accordi musicali. Infatti, quando si uniscono note diverse, si ottiene un accordo, in cui si può ancora udire ogni nota singola. Il colore è quindi sintetico, il suono è analitico. E’ una realtà che segna una differenza tra la costruzione del mondo che facciamo con l’udito e quella che realizziamo con la vista e che dimostra come le percezioni non siano pure registrazioni, ma modi di esplorare, riprendendo un’idea che risale almeno a un filosofo come George Berkeley. Così l’immaginazione di O’Regan che definirei proprio filosofica diventa un programma di ricerca: è il suo approccio allo studio di che cos’è la coscienza».
Lei farà un viaggio nell’immaginazione di Darwin, partendo dal libro di Desmond e Moore «La sacra causa di Darwin». Perché?
«Il saggio propone una ricostruzione raffinata della polemica del padre dell’evoluzionismo contro i sostenitori dello schiavismo. A un avversario che simpatizza con il Sud degli Usa dice: “Anche chi scrive contro la verità può portare un buon servizio alla verità”. C’è un po’ di retorica, ma è interessante la capacità di mettere l’immaginazione al servizio della disputa scientifica. E’ una realtà che noi italiani dovremmo apprezzare, perché un maestro di questa arte della controversia è stato Galileo Galilei, il quale era capace di scovare argomenti pro e contro una teoria, seguendo l’idea che nell’incontro-scontro tra punti di vista, prima o poi, uno prevale e la scienza diceva “non può che aumentarsi”».
Razionalità e immaginazione, scienza e arte: le due culture come le chiamava Edgar Snow ora sembrano dialogare di più. E’ così?
«In effetti sembra che esserci stata una svolta. Nel saggio “L’età dell’inconscio” il Nobel per la Medicina Eric Kandel combina l’immaginazione delle tendenze stilistiche che nascono nella Grande Vienna una cui icona è Klimt con l’immaginazione della psicoanalisi di Freud e di quella della prima fase del neopositivismo. Sono percorsi intellettuali che evocano quelli di alcuni grandi autori del passato».
Come il classico «The art of scientific investigation» di Beveridge?
«Sì. Penso ai lavori di Gerard Holton, uno dei curatori dell’opera di Einstein, e a Karl Popper: nel suo “Poscritto alla logica della scoperta scientifica” ha ripreso alcuni spunti che risalgono al grande matematico Poincaré. Intuizioni filosofiche, voli della fantasia e immaginazioni spiega sono la fonte da cui zampilla la verità scientifica. Certo, tutto dev’essere poi dimostrato o per usare l’immagine di Richard Ellmann, grande biografo di James Joyce si verifica una specie di ebollizione che la logica cerca poi di controllare».
Il coinvolgimento emozionale, oltre quello intellettuale, è lo strumento per avvicinare la scienza alle persone?
«Sì. Non credo che le emozioni possano essere tagliate fuori dalla scienza. “Il cuore mi scoppiava in petto”, disse Einstein, quando seppe che le anomalie del perielio di Mercurio confermavano la Relatività, e non è esaltante che il sogno di Peter Higgs il bosone sia stato appena confermato?».
Le meraviglie della biologia matematica
Pesci, zebre e tigri tra le equazioni di Turing
di Ian Stewart
UNIVERSITY OF WARWICK
Pittori, poeti e scrittori sono da sempre affascinati dalla bellezza degli animali allo stato selvaggio. Chi non restebbe colpito dall’eleganza di una tigre siberiana, dall’enormità di un elefante, dalla posa di una giraffa o dalle strisce pop di una zebra? Eppure ognuno di loro ha cominciato la propria esistenza come una singola cellula. E, allora, come si fa a stipare un elefante in una cellula?
Quando si è scoperto il Dna e si è rivelata la sua importanza, la risposta sembrava semplice. Ma non è così. Ciò che sta in un uovo di elefante sono le informazioni per farne uno, non l’elefante medesimo. Una cellula può contenere un sacco d’informazioni molecolari. E tuttavia un elefante ha un enorme numero di cellule e tutte devono essere assemblate in modo corretto. Ce ne sono così tante che una mappa di un elefante, cellula per cellula, non potrebbe essere contenuta nel Dna. I suoi geni non contengono informazioni sufficienti. Quindi qualcosa deve accadere in corso d’opera.
L’interrogativo è: che cosa? Una risposta come spiegherò al Festival della Scienza di Genova arriva dalla creatività di un grande matematico, Alan Turing, di cui si celebra il centenario. È famoso per il lavoro di crittografo durante la Seconda guerra mondiale e i fondamentali contributi all’informatica e all’intelligenza artificiale. E’ meno noto, però, che sia stato un pioniere della biologia matematica.
Nei primi Anni 50 Turing mostrava spesso ai colleghi disegni con macchie irregolari bianche e nere, chiedendo loro se fossero d’accordo sul fatto che sembrassero una mucca. Più precisamente, la pezzatura di una mucca frisona. I suoi disegni erano il risultato di complicati calcoli matematici, il primo passo di un progetto che mirava a rispondere a una delle grandi questioni della biologia. Molti animali hanno segnature sorprendenti: dalle macchie del leopardo alle strisce della tigre. Come nascono questi modelli?
Nel 1952 Turing pubblicò «Le basi chimiche della morfogenesi», in cui proponeva un meccanismo per la formazione delle macchie degli animali. Suggeriva che appaiano in due fasi. Quando l’animale è un embrione le molecole interagiscono e poi si diffondono. Il risultato è una «traccia» di sostanze chimiche che si trasforma nel modello visivo, innescato dai pigmenti. Chiamò «morfogeni» generatori di forma questi ipotetici agenti chimici. Il cuore della teoria è un sistema di equazioni «di reazione-diffusione», capace di simulare il modo in cui i morfogeni si manifestano nell’embrione.
I modelli che si generano includono righe, macchie e altre segnature complesse. Sono simili a quelli osservati su innumerevoli animali, dai pesci tropicali alle conchiglie, e sono spesso di straordinaria bellezza.
James Murray ha modificato le idee di Turing per spiegare i segni che appaiono su felini, giraffe e zebre. I due modelli classici sono le strisce e le macchie. Entrambi sono creati da strutture ondulatorie di tipo chimico. Le onde, lunghe e parallele come i cavalloni sulla spiaggia, producono le strisce. Altre onde, con angolazioni diverse, si frammentano e diventano macchie. Da un punto di vista matematico le strisce si trasformano in macchie quando il sistema delle onde parallele entra in una fase di instabilità. La scoperta ha spinto Murray a una curiosa previsione: un animale a macchie può avere una coda a strisce, ma un animale a strisce non può avere una coda maculata.
Nel ‘95 gli scienziati Shigeru Kondo e Rihito Asai applicarono le equazioni di Turing al pesce angelo imperatore, che ha suggestive strisce gialle e viola. Qui le formule producono una previsione sorprendente. Le strisce «si muovono». Quando i due hanno fotografato alcuni esemplari, hanno scoperto che le strisce stesse migrano lentamente sul corpo. Non solo. I difetti nel modello delle strisce regolari le dislocazioni si «rompono» e si riformano come prevedeva la teoria di Turing.
Hans Meinhardt ha invece dimostrato come alcune varianti delle equazioni di Turing spieghino molte caratteristiche dei segni sulle conchiglie. Questi modelli non devono essere semplici e regolari, come le macchie e le strisce. Molti sono complessi. Alcune conchiglie a cono, per esempio, sono ricoperte da casuali raccolte di triangoli. Eppure, sorprendentemente, modelli quasi identici si trovano di nuovo nelle equazioni di Turing. Si tratta dei frattali, un concetto reso popolare da Benoit Mandelbrot negli Anni 60. I frattali sono associati con il caos dinamico, un comportamento irregolare all’interno di un sistema matematico deterministico. Le conchiglie a cono combinano così le caratteristiche matematiche sia dell’ordine sia del caos.
La biologia contemporanea si incentra sulla genetica e sul Dna. Il modello di Turing, invece, è più legato allo spirito della vecchia biologia, focalizzato sugli animali stessi, e non contempla specifiche sostanze chimiche. E, tuttavia, nuove ricerche hanno iniziato a fornire maggiori dettagli.
Nel 2012 un gruppo del King’s College di Londra ha dimostrato che i modelli delle increspature nella bocca dei topi sono controllati da un «processo di Turing». Sono stati individuati due morfogeni che stabiliscono il punto in cui si forma ogni alterazione: sono il «fattore di crescita dei fibroblasti» e il «Sonic hedgehog» il riccio sonico così chiamato perché i moscerini della frutta privi di questo gene presentano molte più setole.
Altre ricerche hanno collegato il processo di «reazione-diffusione» di Turing allo sviluppo degli arti e a quello della mano dell’uomo. Si stanno così accumulando molte prove che il modello del celebre matematico sia il migliore per spiegare una vasta serie di esperimenti. E’ la realtà della biologia matematica, che ha fatto molta strada da quando Turing mostrò, per la prima volta, i suoi disegni sulle pezzature delle mucche. Traduzione di Carla Reschia
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