martedì 30 ottobre 2012

La lingua italiana nell’era digitale




L'italiano rischia la scomparsa su Internet
La percentuale di chi parla l'italiano è destinata a calare. 
Necessari investimenti sostanziali in tecnologie linguistiche

Carolina Saporiti
“Corriere della Sera”, 28 ottobre 2012

Investire o scomparire. È questo il futuro della lingua italiana su intenet. A dirlo è il rapporto La lingua italiana nell’era digitale, condotto dall’Istituto di linguistica computazionale del Cnr di Pisa (Ilc-Cnr). La percentuale delle pagine web in italiano a livello mondiale è raddoppiata passando dall’1,5% nel 1998 al 3,05% nel 2005 ed è stato stimato che nel 2004, in tutto il mondo, fossero 30,4 milioni le persone che parlavano italiano online.

I NUMERI - Oggi, secondo i ricercatori, la penetrazione del web in Italia si attesta al 51,7%, pari a 30 milioni di internauti su 58 milioni di cittadini (circa il 6,3% di quelli dell’Ue), registrando una crescita del 127,5% tra il 2000 e il 2010. Inoltre al di fuori dei confini dell’Unione Europea, parlano la nostra lingua 520 mila americani, 200 mila svizzeri e 100 mila australiani. Il numero di «navigatori» italiani però è rimasto stabile negli ultimi cinque anni mentre è aumentato il numero di quelli dei Paesi in via di sviluppo. In qualche anno la proporzione di coloro che parlano la nostra lingua subirà dunque una forte diminuzione.

RISCHI - Il rischio? Subire una sotto-rappresentazione, specialmente in confronto all’inglese. Il problema non riguarda solo l’Italia ma la maggior parte degli idiomi europei, specialmente quelli dei Paesi con pochi abitanti. Spiega Claudia Soria dell’Ilc-Cnr: «Il nostro Paese non è tra i peggiori e d’altra parte nessuna nazione dell’Ue ha supporti eccellenti. La situazione è però preoccupante perché le tecnologie linguistiche usate in Internet si basano su approcci statistici e quindi se i dati messi a disposizione in un idioma sono pochi, si innesta un circolo vizioso: pochi dati, tecnologie di bassa qualità, ulteriore limitazione dell’uso di quella lingua».

TECNOLOGIE - L’Italia ha a disposizione buone tecnologie, ma affinché un dispositivo possa riconoscere un idioma sono necessari investimenti sostanziali in tecnologie linguistiche. Al momento, invece, in Europa la maggior parte dei Paesi sta investendo poco o niente. L’ultimo programma di questo tipo promosso dall’Italia risale al 2000-2002. L’italiano come lingua non corre nessun rischio, ma in un futuro prossimo gli italiani potrebbero trovarsi nella situazione di dover usare due linguaggi differenti a seconda che si tratti di comunicazione quotidiana o digitale. «Se l’italiano non viene sostenuto, il suo utilizzo online rischia di atrofizzarsi, dal momento che la nostra vita si svolge sempre di più attraverso la rete», spiega Soria.

STUDIO - Lo studio, condotto dall’Istituto Cnr e dalla Fondazione Bruno Kessler, fa parte della ricerca Meta-Net a cui hanno lavorato più di 200 esperti. Il rapporto valuta il supporto delle tecnologie linguistiche per ogni lingua in quattro aree diverse: la traduzione automatica, l’interazione vocale, l’analisi del testo e la disponibilità di risorse linguistiche. Il 70% si colloca al livello più basso, con «supporto debole o assente» per almeno una delle aree considerate. L’islandese, il lituano, il lettone e il maltese ottengono questo voto per tutte le aree. All’estremo opposto si trova l’inglese, seguito da olandese, francese, tedesco, italiano e spagnolo. Lingue come basco, bulgaro, catalano, greco, ungherese e polacco si collocano nell’insieme «ad alto rischio». «Sono risultati allarmanti», conclude Hans Uszkoreit, coordinatore di Meta-Net. «La maggior parte delle lingue europee non dispone di risorse sufficienti e alcune sono quasi completamente ignorate. Molte di esse non hanno futuro».

Lo studio Meta-Net La lingua italiana nell'era digitale in formato PDF. CLICCA QUI.








Il numero monografico di Limes, Lingua è potere. Sommario.



L. Caracciolo, La convergenza linguistica italiana come conquista democratica. Da coltivare e difendere (articolo pubblicato su la Repubblica il 03/01/2011).

L'Italia si appresta a celebrare i suoi primi 150 anni di unità in un clima sobrio, tendente a ragionevole depressione. Fin troppo evidenti, ripetuti - spesso ripetitivi - gli argomenti che possono inclinarci al pessimismo. Varrebbe la pena soffermarci anche sui successi. Tra i quali forse il più importante è l'affermazione dell'italiano come lingua della grandissima maggioranza dei cittadini della Repubblica.
Le stime di alcuni filologi indicano in una esigua cerchia, pari all'8% degli abitanti del Regno (altri optano addirittura per il 2,5%), gli italofoni all'epoca dell'unificazione nazionale. Gli altri si esprimevano solo nei vari dialetti, spesso fra loro incomunicanti. Sotto la monarchia sabauda la prevalenza dei dialetti diminuirà, senza però che l'italica favella si affermasse come lingua maggioritaria.
Solo con la Repubblica, grazie anche ai mezzi di comunicazione di massa, televisione pubblica in testa, si compie la svolta che porta oggi nove cittadini italiani su dieci a convergere verso la lingua italiana. Come ricorda Tullio De Mauro nel quaderno speciale che Limes, in collaborazione con la Società Dante Alighieri, ha dedicato alla geopolitica delle lingue (“Lingua è potere”), “mai in tremila anni di storia le popolazioni italiane avevano conosciuto un simile grado di convergenza verso una stessa lingua”.
Non si tratta di pura ascesa culturale, né solo della rottura dei vincoli di classe che frenavano la vasta fruizione di uno dei più belli e ricchi idiomi del mondo. È soprattutto una conquista democratica. Raggiunta non per caso in età repubblicana, non con lo Stato oligarchico-liberale né sotto il fascismo.
Il fatto che la grandissima maggioranza dei nostri cittadini abbia accesso alla lingua comune – senza negare l'uso parallelo del dialetto o di altre lingue, minoritarie in Italia – è la premessa fondativa di qualsiasi società democratica. Perché permette di intendersi, di argomentare e di disputare a partire da una comune base linguistica e culturale. 
Non così negli ambiti autoritari. Ad esempio nelle organizzazioni criminali. Dove il ricorso al gergo, spesso modulato su dialetti locali, aderenti a un territorio sottratto al controllo dei poteri pubblici, è usuale e distintivo. Su un piano molto diverso, la tentazione gergale si esprime in certe disposizioni burocratiche, private o pubbliche. 
E sempre più nelle leggi, quando l'opacità espressiva serve a precludere al cittadino la comprensione delle regole del nostro vivere associato, riservata a superiori poteri. Fino al caso delle istituzioni comunitarie, che hanno sviluppato un eurogergo capace di attrarre l'attenzione di filologi irriverenti. 
È proprio sul piano europeo, dove l'italiano è sopraffatto dalla triade linguistico-geopolitica dominante (inglese, francese e tedesco, in quanto idiomi dei cosiddetti “Tre Grandi” - Regno Unito, Francia e Germania), che si svolge oggi un formidabile conflitto di potere su base linguistica. Noi italiani non sembriamo interessarcene troppo, meno ancora il nostro governo. 
A ricordarci che la convergenza linguistica è condizione necessaria ma non sufficiente della democrazia. Specie in Italia, dove l'italofonia diffusa non ha tuttavia prodotto quel grado di convergenza geopolitica e culturale che distingue i paesi usi a discutere, elaborare e difendere il proprio interesse nazionale, da quelli che vi hanno rinunciato. 
Così finiamo per rimetterci alla determinazione altrui. E svuotiamo di senso quella democrazia che la lingua ha contribuito a fondare.

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