domenica 24 giugno 2012

… formule … formule


Antonio Sparzani, Chi ha paura delle formule?


L'immagine mostra le terzine con le quali Niccolò Fontana, detto il Tartaglia, forniva a Girolamo Cardano una chiave per la formula risolutiva dell'equazione di terzo grado.
Che cosa hanno in comune una Ferrari e il censimento della popolazione nell’antica Roma? Non molto, sembrerebbe, salvo che c’è una stessa parola che è implicata in entrambe. Nell’antica Roma, due millenni prima dell’epoca delle Ferrari, Tito Livio, storico di età augustea, scrisse un’opera immensa, cui si conviene di dare il titolo Ab urbe condita – dalla fondazione della città–per–eccellenza – un’opera che in 142 libri ripercorreva, con partecipazione e devozione intense per le sorti di Roma, la sua storia dalla fondazione all’inizio dell’impero, il tempo di Augusto. Mentre narra degli avvenimenti – in tempo di pace – della repubblica, Livio ha occasione di segnalare l’origine di un istituto importante nella storia di Roma, quello della censura che non designa, in quest’epoca, quel che oggi normalmente s’intende con questa parola (anche se non ne è poi così lontana, e forse tutto è cominciato da qui …), ma l’operazione di censire la popolazione, e censire significa, così ci racconta Livio, qualcosa di più che semplicemente contare e sapere nomi e domicili dei cittadini:
«In questo medesimo anno ebbe principio la censura, istituto che ebbe piccolo esordio, ma che acquistò di poi sì grande incremento. Ché il regolamento dei costumi e della disciplina Romana fu nelle mani del nuovo magistrato, ed il Senato e le centurie dei cavalieri ebbero il discernimento del loro onore o disonore in suo potere; e l’ispezione dei luoghi pubblici e privati, le rendite del popolo romano, furono al suo cenno ed arbitrio.» [Tito Livio, Ab urbe condita, 4, VIII, trad. di Emilio Bodrero].
Dunque un censimento non proprio neutrale, a quanto dice Livio: il potere del magistrato sembra andare oltre la mera registrazione dei cittadini; ma poiché, continua Livio, mentre diventava urgente eseguire questa operazione, i consoli avevano altre faccende più importanti da seguire, «fu presentata al Senato una memoria, nella quale si faceva presente che quella operazione, faticosa e poco consolare, aveva bisogno di un magistrato speciale, dal quale dipendessero gli scribi, i custodi e la cura dei registri, e che regolasse a suo modo la formula del censimento [cui arbitrium formulæ censendi subiceretur]».
È proprio la parola latina formula, diminutivo di forma ma con un evidente slittamento di significato, che fa la sua comparsa, nel senso di insieme di regole enunciate (stavo per scrivere “formulate”) con precisione, da seguire nell’esecuzione del censimento. Insieme di regole, dunque, purché ben precisate e non soggette ad ambiguità; prescrizioni chiare e distinte.
E la Ferrari non è, forse, per antonomasia, una macchina di “formula 1”? Anche qui la stessa parola, e usata, si noti, in un senso molto simile: l’insieme di regole cui è soggetta una certa categoria di automobili per poter partecipare a un ben preciso tipo di gare.
E poi c’è la formula di governo, un insieme di regole, frutto di delicati equilibri ed alchimie, dalle quali è costituita quella che l’orrido politichese chiama “la compagine ministeriale”. O la formula, spesso riservata, di una crema di bellezza, le regole ferree – e commercialmente segrete – con le quali deve essere composta quella crema, per poter avere quel marchio e quel nome.
Su questa strada ci si avvicina ovviamente alla formula chimica di un composto, quell’insieme di simboli, che funzionano secondo precise regole internazionalmente stabilite – N sta per azoto, C per carbonio, Sb per antimonio, ecc. – e che vanno combinati in modo da esprimere esattamente quali elementi e in quali proporzioni formano il dato composto;
H2O, la formula dell’acqua, ci dà una informazione precisa su quali siano i costituenti elementari dell’acqua: ogni molecola, minima quantità d’acqua che ne conserva le proprietà, è costruita con due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Non è naturalmente una informazione ancora completa su come l’acqua è fatta (problematica in verità non facilissima neppure per i chimici provetti), però fornisce una informazione precisa, per quanto parziale, su un aspetto dell’acqua.
Fino ad arrivare alla formula fisica, o, in cima alla scala, alla formula matematica.
La matematica e tutto quanto le sta attorno, di formale, di iniziatico, di cabalistico, non è che un altro codice che è stato inventato per far fronte ad altre necessità. A cominciare da due: la necessità di contare, da una parte, e quella di misurare la terra dall’altra. Ma, si obietterà, da queste esigenze elementari – che risalgono alle antiche civiltà di cui si ha qualche documento – al castello gigantesco della matematica e della fisica contemporanea, c’è un vero abisso. Non riesco certo qui a rispondere brevemente alla domanda che chiede come ha potuto complicarsi in un modo così profondo un tale codice, risposta che richiederebbe un mucchio di analisi storiche specialistiche, però posso far notare, eseguendo un po’ una mossa di lato, come una delle espressioni più naturali e vitali della cultura umana, la letteratura, ha fatto i conti (metafora certamente adatta a questo scopo) con la matematica. In vari modi, un po’ ignorandola, un po’ esorcizzandola, o ammirandola da lontano, o trattandola con leggerezza e allegria. Un modo è quello di Hermann Broch che nel romanzo L’incognita scrive:
«Vede, – disse Kapperbrunn – la matematica è una sorta di atto disperato dello spirito umano… in sé e per sé non ci serve per niente, ma è una specie di isola dell’onestà, e per questo le voglio bene.»
Un altro è quello che usa Penelope Fitzgerald, quando, nel suo romanzo Il fiore azzurro nel quale ricostruisce la vita di Friedrich von Hardenberg, alias Novalis, fa dire ad uno dei suoi personaggi:
«l’algebra, come il laudano, attutisce il dolore» [Fitzgerald Penelope, The blue flower, Harper Collins, G. B. 1995, trad. it., a c. di Masolino d’Amico, Il fiore azzurro, Sellerio, Palermo 1998, p. 227].
E un altro ancora è quello contenuto nel secondo dei Canti di Maldoror, stupefacente scritto del conte di Lautréamont, pseudonimo di Isidore-Lucien Ducasse, maledetto tra gli scrittori maledetti della seconda metà dell’Ottocento francese:
«O matematiche severe, non vi ho dimenticate da quando le vostre sapienti lezioni, più dolci del miele, filtrarono dentro il mio cuore come un’onda rinfrescante. Istintivamente aspiravo, fin dalla culla, a bere alla vostra fonte, più antica del sole, e ancora continuo a calcare il vestibolo sacro del vostro tempio solenne, io, il più fedele tra i vostri iniziati. C’era del vago nella mia mente, un non so che, spesso come il fumo; ma io seppi valicare religiosamente i gradini che portano al vostro altare, e voi avete dissipato questo velo oscuro, come il vento scaccia la procellaria. Al suo posto voi avete messo un’estrema freddezza, una prudenza consumata e una logica implacabile.» [Lautréamont, ed. ital., pp. 101-03] 




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