M. Pistoletto, VENERE DEGLI STRACCI, 1967
Noi, analfabeti seduti su un tesoro, di Armando Massarenti, “Il Sole 24 ore”, 11 marzo 2012
Due dati dovrebbero impressionarci come italiani, se vogliamo vederci (anzi, diciamo pure, venderci) come cittadini del mondo.
Il primo è quello che riguarda la strepitosa immagine positiva che ancora siamo in grado di diffondere all'estero. Chiunque di noi si presenti come italiano in un qualunque ambiente di New York, Parigi, Tokyo, Pechino, Singapore, non riceverà che elogi e espressioni di ammirazione.
Perché? Perché nonostante tutto il nostro brand va fortissimo. E di che cosa è fatto questo brand? Vi sembrerà strano ma la parola che lo riassume è una sola: Cultura. Noi siamo il Paese della Cultura. Ovunque nel mondo. Nel mondo che conta e che si arricchisce. Lo dico con un'enfasi che non è la mia (e neppure l'uso disinvolto di parole del marketing come brand lo è, ma è per intendersi), perché non amo la retorica e per me cultura è anche tante altre cose assai più piccole (è anche ingegnosità minuta, fumetti, videogiochi, grafica, artigianato) e anche meno piccole ma in genere poco amate dagli umanisti: scienza, diritto, economia. Ma c'è poco da fare: è quello il brand che, quando siamo bravi, riusciamo a vendere, e dobbiamo andarne fieri. Anche nelle piccole cose: nel nostro design, nelle nostre automobili, nel nostro abbigliamento, nei nostri orologi di lusso, nei nostri mobili, in tutto il made in Italy c'è un riverbero della nostra gloriosissima storia, in un'immagine in cui lo straniero vede tutta la grandezza dell'antica Roma e del nostro Rinascimento, che condisce con i nostri musicisti, gli inventori dell'Opera lirica, i poeti, i grandi navigatori, i fondatori della scienza galileiana, cioè di quel metodo che è alla base del prodigioso progresso tecnico-scientifico degli ultimi quattro secoli in Europa e nel mondo.
Ma di questo si parla nelle pagine centrali di questo numero, dove si può vedere bene, dati alla mano, che nei casi migliori la cultura «fattura», anche al nostro interno, nelle nostre regioni e province.
Passiamo dunque al secondo dato che dovrebbe impressionarci. Anzi, in questo caso, allarmarci. Noi italiani appariamo come primi ‐ primi assoluti! ‐ in una ben poco encomiabile lista. Tutto il mondo la può leggere e stupirsene. È pubblicata nella voce «functional illiteracy» di Wikipedia (la voce corrispondente «analfabetismo funzionale» non c'è nella versione italiana di Wikipedia, qualcuno la allestisca!), e dice che il 47 per cento degli italiani dai 14 ai 65 anni ha forti deficienze nella semplice comprensione di un testo. All'Italia seguono il Messico (43,2%), l'Irlanda (22,6%), Gran Bretagna (21,8), Usa (20), Belgio (18,4) giù giù (anzi su su) fino alla alfabetizzatissima Svezia (7,5%!).
Il 47 per cento di analfabeti vi sembra un'esagerazione? Prima di allarmarci potremmo provare a consolarci in due modi. Primo: obiettare che i dati della voce di Wikipedia si fermano al 2003. Magra consolazione. Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco ci ha ricordato, nel suo recentissimo Investire in conoscenza e sul Sole 24 Ore-Domenica di due settimane fa, che negli anni successivi gli analfabeti funzionali sono saliti all'80%! E un allarme simile è confermato da uno dei nostri massimi linguisti, Tullio De Mauro. Anche la tv, dopo aver fortemente contribuito alla crescita e unificazione linguistica del Paese, ora sta assecondando il movimento opposto.
Secondo modo di consolarci: si tratta di «analfabetismo funzionale» e non di analfabetismo tout court, dal quale siamo usciti con un grande sforzo collettivo con la ricostruzione del secondo dopoguerra.
Magra, magrissima consolazione anche questa, alla quale si può rispondere con la famosa battuta di Eugenio Montale, che aveva già capito tutto: «Il rapporto tra l'alfabetismo e l'analfabetismo è costante, ma al giorno d'oggi gli analfabeti sanno leggere». Sanno leggere 'tecnicamente', nel senso che per lo più riconoscono i caratteri, e sanno maldestramente far di conto. Peccato che nell'80 per cento dei casi non capiscano quello che leggono e non dispongano di quel minimo di attrezzatura intellettuale utile a orientarsi nel mondo. Non sono in grado per esempio di capire e compilare un modulo in cui vengano richieste non solo informazioni anagrafiche, ma anche riguardanti la propria posizione professionale, previdenziale o fiscale. E se nei paesi civili la media dei cittadini di questo tipo si assesta sul 20%, da noi le percentuali sono invertite!
Dove può andare il Paese più ricco di opere d'arte del mondo, che futuro può immaginare per il suoi giovani, per la qualità della vita, per riattivare quel «circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione», se parte da questa miserevole dotazione di capitale umano?
Mettendo insieme le due immagini ‐ quella del brand e quella dell'analfabetismo ‐ viene da pensare al grande illuminista tedesco Ephraim Lessing, il quale suggellò il suo Grand Tour con una favola in cui i moderni italiani che si vantano di discendere dagli antichi romani vengono paragonati a vespe che uscendo dalla carogna di un cavallo esclamano: «Da quale nobile animale abbiamo tratto origine!».
Quanto gli italiani sappiano diventare boriosi proprio in ragione della loro storia e al loro patrimonio lo ha poi ribadito un altro filosofo. «Il tratto principale del carattere nazionale degli Italiani - annotava Arthur Schopenhauer in un Taccuino del 1823 - è un'assoluta spudoratezza. Che consiste in questo: da un lato non c'è nulla di cui non ci si ritenga all'altezza, e quindi si è presuntuosi e arroganti; dall'altro non c'è nulla di cui ci si ritenga abbastanza esperti, e quindi si è codardi. Chi ha pudore, invece, è troppo timido per alcune cose, troppo orgoglioso per altre. L'Italiano non è né l'uno né l'altro, bensì, a seconda delle circostanze, o è pavido o è borioso».
Oggi dobbiamo avere l'umiltà di ricominciare da capo, di ripensare i saperi e le competenze, e acquisire piuttosto la consapevolezza di essere degli analfabeti seduti sopra un tesoro, sempre di più privi di quegli strumenti di base che ci permetterebbero non solo di capire, ma anche di far fruttare i formidabili talenti che ci circondano.
Smettiamola, con il nostro turismo d'accatto, di presentarci come degli straccioni che a un certo punto scoprono di avere il Colosseo (oggi usato come una specie di rotatoria per le automobili) e cercano di mungerlo il più possibile, senza aggiungerci nulla in termini di innovazione, intelligenza, conoscenza, capitale umano. Totò che vende la fontana di Trevi a un turista americano è un'altra immagine appropriata, e ancora attuale. Ci fa ancora ridere. Ridiamoci pure sopra. Ma allarmiamoci anche, perché Totò ci sta dicendo ancora la verità. Abbiamo capito che quell'opera ha un valore inestimabile, ma ne capiamo sempre meno il significato, mentre è proprio questo che gli altri Paesi civili ed emergenti comprendono e apprezzano, e spesso sfruttano economicamente, con maggiore lungimiranza, al nostro posto.
Ecco allora il vero senso di emergenza che il nostro Manifesto per la cultura vuole imprimere ai decisori pubblici attuali, e al Governo intero, che non possono sottrarsi a questa enorme responsabilità storica solo perché da trent'anni i loro predecessori lo hanno fatto. Il senso dell'urgenza sta in quei dati agghiaccianti, in quel misero 20% di italiani (8 milioni circa) che dispone di strumenti di lettura e scrittura minimi indispensabili. Siamo in gravissimo ritardo nel quadro internazionale e nell'ambito di una società globalizzata cosiddetta della «conoscenza». Se poi aggiungiamo i dati relativi ai ragazzi di 15-16 anni dei famosi test Pisa c'è da allarmarsi ancora di più.
Dunque prima ancora che dalla Cultura, partiamo dalle sue basi, dall'istruzione, e ripensiamola nei termini dell'unico possibile investimento per il nostro futuro dopo la crisi. Prendiamo il coraggio ‐ e i dati ‐ a due mani e diamoci da fare. Io sono certo, con la maggior parte di voi, che impegnandoci un po' possiamo tranquillamente dimostrare che Lessing e Schopenhauer avevano torto.
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