19 ottobre 2013
A cinquecento anni dalla sua stesura il Principe di Machiavelli ha ancora molto da dire alla classe politica oggi. Machiavelli aveva una concezione alta della politica. Era la sua grande passione. Insieme alle donne. E non ha mai detto che il fine giustifica i mezzi. Fu la Controriforma ad attaccarlo e a mistificare il suo pensiero, come racconta Maurizio Viroli
Fiero repubblicano, Niccolò Machiavelli scrisse il Principe (1513) ma non abdicò mai alle proprie convinzioni. Da «realista con immaginazione» quale era cercava, anche attraverso questo trattato, di far passare la propria visione alta della politica. «Che non era affatto scissa dai valori etici» sottolinea lo studioso Maurizio Viroli che allo scrittore fiorentino ha dedicato molti libri, fino ai recentissimi Scegliere il principe. I consigli di Machiavelli al cittadino elettore e La redenzione d’Italia. Saggio sul Principe di Machiavelli usciti entrambi per Laterza. A cui si aggiunge Machiavelli filosofo delle libertà edito da Castelvecchi. E proprio dal significato che Machiavelli attribuiva alla parola libertà prende avvio la nostra intervista al professore emerito di teoria politica dell’University of Princeton, che ora insegna all’Università della Svizzera italiana e alla University of Texas.
«Libertà per Machiavelli significava vivere libero» dice Viroli che il 19 ottobre al Teatro Niccolini di San Casciano (Fi) ha aperto un ciclo di conferenze organizzato da Laterza per i cinquecento anni dalla stesura del Principe.
«Questa è un’espressione molto chiara che ricorre più volte negli scritti. E’ riferita a un popolo, a una città ma anche a un individuo che vive senza essere dipendente dalla volontà arbitraria di altri. Machiavelli ha della libertà la concezione che viene dal mondo romano. E’ libera la persona non sottoposta a dominio di altre persone che gli possano impedire di realizzarsi. Una città, diceva Machiavelli, in cui c’è anche un solo uomo al di sopra delle leggi non si può dire libera. L’Italia, ai suoi tempi, non era libera perché era alla mercé delle potenze d’Oltralpe.
Machiavelli fu uno strenuo difensore della libertà repubblicana. Ma la sua ricerca della libertà non riguardava solo la sfera pubblica…
C’è anche una dimensione interiore della libertà. Come caratteristica dell’individuo. Se si vuole essere una persona libera, scriveva, per prima cosa bisogna essere se stessi. Essere liberi significa avere profonde convinzioni e avere il coraggio di esprimerle e difenderle anche quando vanno contro le opinioni dominanti. Machiavelli in questo era ammirevole: esprimeva consapevolmente concetti politici e morali che contestavano l’opinione comune del suo tempo. Sa come lo chiamavano i suoi sottoposti e collaboratori in Cancelleria che lui servì dal 1448 al 1512? Lo chiamavano “cheppia”dal nome di un pesce che dal mare risale contro corrente i fiumi per andare a depositare le uova.
Dal suo Machiavelli filosofo delle libertà emerge un ritratto a tutto tondo dello scrittore e dell’uomo, «cittadino di impeccabile onestà e rettitudine» che amava soprattutto la politica e le donne. Parlando di passioni Machiavelli, lei ricorda,scriveva all’amico Vettori «tanto mi paion or dolci, or leggieri, or gravi quelle catene e fanno un mescolo di sorte che io giudico non poter vivere contento senza quella qualità di vita»…
Per Machiavelli vivere liberi significava non rifiutare le passioni. Lasciarsi andare per esempio alla passione amorosa, alla bellezza, agli affetti, senza paura di incorrere nel biasimo dei benpensanti. Quando l’amico Francesco Vettori gli chiese un consiglio riguardo a una donna molto bella ma più giovane di cui si era innamorato, Machiavelli rispose:«chi vuol fare a modo d’altri non fa mai nulla”. È “meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi». Auree parole. Bisogna dire anche che amava la compagnia e il buon vino, le cene e bei vestiti. Anche se poi di buono ne aveva solo uno. Fautore della libertà repubblicana ammirava le libere città Svizzere e Tedesche, ma definiva la loro una rozza libertà. Avrebbe voluto una libertà più raffinata, e auspicava che l’Italia potesse conquistarla.
E qui veniamo al punto, Machiavelli non faceva “piccola politica”, pensava a una rinascita civile della patria, detestava servi, adulatori e cortigiani. Ma il Principe fu messo all’indice. E la sua immagine del libero pensatore fu gesuiticamente degradata a campione del machiavellismo, di un tatticismo pronto a tutto. Come si spiega questo fraintendimento durato secoli?
Machiavelli pensava che la politica fosse la più nobile attività pratica dell’essere umano perché, se esercitata secondo le regole dell’arte, può costruire in terra delle opere di grande valore: fondare un vivere libero, emancipare un popolo, ridare dignità ad una nazione, liberare dalla corruzione. Solo la grande politica, che Machiavelli ha sempre teorizzato, difeso e praticato, può realizzare questi importanti obiettivi. Ma dalla Controriforma in poi Machiavelli è stato visto come il teorico del fine giustifica i mezzi, come il politico corrotto che vorrebbe essere giudicato diversamente dalle persone comuni. Tutte queste stupidaggini non stanno né in cielo né in terra. Non ci sono nei testi di Machiavelli. Sono nate – guardi un po’- dai pensatori politici della Controriforma che praticavano la politica come adattamento alla corruzione, esercizio del potere, soddisfazione delle peggiori ambizioni e il soffocamento delle libertà. Avevano bisogno di distruggere Niccolò Machiavelli nella sua grandezza per potere praticare un’idea di politica completamente diversa. Tattica raffinata che è stata usata spesso in Italia. Quando c’è un grande pensatore lo distruggi per continuare ad essere mediocre e per continuare ad agire indisturbato in maniera opposta.
Che lezione politica potremmo trarre da Machiavelli oggi?
Nel mio libro La libertà dei servi (Laterza) qualche anno fa ho usato molte idee di Machiavelli, in particolare quella che ho ricordato all’inizio, ovvero che una Repubblica non è più libera se esiste un uomo con un potere enorme. Questo è Machiavelli puro ed io l’ho applicato alla realtà italiana dove esisteva ( e in parte esiste ancora), un uomo con un potere enorme. Nemmeno i più detestabili cortigiani di Berlusconi sono stati in grado di confutare questa mia affermazione. Ma Machiavelli non ci insegna solo questo. Nel capitolo XXIV del Principe ci spiega perché l’Italia era ridotta allo stato penoso in cui si trovava all’inizio del Cinquecento . La responsabilità, diceva, è dei nostri principi, capaci di scrivere una bella lettera (oggi diremmo un buon comunicato stampa), di imbastire qualche discorso di circostanza, essere bravissimi ad ordire inganni. In questo anche molti dei nostri politici sono invincibili. E soprattutto diceva Machiavelli vogliono che le loro parole siano prese come verità assolute, come sentenze di oracoli. Infatti la forma che prediligono è la dichiarazione davanti a una selva di microfoni, perché non sono in grado di sostenere un vero contraddittorio. Cosa ci ha detto in sostanza Machiavelli? Che senza grandi politici una repubblica è condannata al declino, all’impoverimento sia materiale che morale, alla perdita della dignità e della libertà. Questa analisi sulla responsabilità dei principi che Machiavelli svolse agli inizi del Cinquecento può essere ripetuta con piccoli adattamenti alla realtà italiana. Ma Machiavelli ci ha anche detto come si fa a uscirne. Lo aveva capito, perché studiava la storia. Bisogna avere la fortuna che emerga da qualche parte un politico, che abbia una grandezza straordinaria ma che soprattutto sia capace di suscitare in un popolo motivazioni e passioni di libertà. Ora nessuno è in grado di dire se e quando verrà un politico di questo tipo. Certo è che con i politici attuali l’Italia non avrà un riscatto morale, politico e civile.
Per riprendere un grande classico come Machiavelli e Guicciardini di Felix Gilbert ora ristampato da Einaudi, potremmo dire che la difesa del «particulare» ha prevalso in Italia?
Questo è vero. Ma bisogna anche dire che Guicciardini era un uomo che teneva molto al suo interesse, ma lo legava sempre alla dignità dell’Italia e di Firenze. Era un uomo attaccato alla propria ricchezza e al proprio status, ma fu anche un buon governatore di Modena e Reggio e rischiò la vita nella difesa di Parma. A me pare che oggi in Italia siano pochissimi i politici in grado di pronunciare parole come “io amo la Repubblica”, “amo il bene comune, il vivere libero”, ed essere credibili. Guicciardini, come Machiavelli, lo era.
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