lunedì 4 novembre 2013

Remo Bodei: “Riscopriamo Pitagora: il futuro ha bisogno della fantasia esatta”


Il professore di filosofia: 
“Un lungo percorso unisce la bellezza 
degli antichi con la cultura scientifica”

STEFANO RIZZATO

"TuttoScienze - La Stampa", 1 novembre 2013

Nell’era del relativismo e del kitsch è difficile anche da credere. Ma è esistito un tempo in cui non c’era bisogno di estetica né di musei. Un tempo in cui la bellezza era scienza, armonia calcolabile, misura perfetta. Era l’incantesimo classico, poi frantumato dal barocco e mai più recuperato. Una rivoluzione vecchia quattro secoli, ma ancora attuale e centrale, in grado di parlare della modernità e delle nostre crisi. 

«Oggi solo nella musica rimane quell’idea di armonia: dal barocco in poi il paradigma pitagorico è perduto: la relazione tra bello e matematica non esiste più». A spiegarlo è il filosofo Remo Bodei, docente all’Ucla di Los Angeles, che sarà protagonista - venerdì alle 11, a Palazzo Ducale - di uno degli incontri di punta del Festival della Scienza in corso a Genova. Sarà un percorso - spiega - «dalla bellezza calcolabile alla bellezza vaga». Forse con un po’ di nostalgia per quell’alchimia perfetta tra scienza ed estetica, filosofia e politica. 

Professore, perché fa risalire a Pitagora la base dell’idea classica del bello? 
«Il suo teorema era una vittoria sull’incommensurabile. Significava piegare a una logica anche gli “alogoi”, gli irrazionali come la diagonale del quadrato. Tutto il razionalismo, se vogliamo, nasce lì. E lì nacque anche l’idea del bello come misura e proporzione. Poi è arrivato il barocco a celebrare il gusto e la vaghezza e la bellezza non ha più avuto una sua verità. Così, più tardi, appaiono i musei, è nata l’estetica di Baumgarten e si è sentito il bisogno di una storia dell’arte». 

Oggi non è rimasto davvero nulla di quel legame tra scienza e bellezza? 
«Solo i grandi scienziati moderni hanno un po’ ripreso l’idea antica di armonia. Quando Einstein dice che “Dio non gioca a dadi” parla, in fondo, di questo, della verità che ama nascondersi di Eraclito. L’oggettività e la condivisione del bello, però, sono andate perdute. Siamo come bambini che chiedono che cosa è giusto e bello: incapaci spesso di riconoscere i criteri minimi, sempre più vulnerabili alla minaccia del kitsch, complici di vere catastrofi sul nostro paesaggio». 

Quali sfide scientifiche trova più affascinanti? 
«Senza dubbio le biotecnologie, perché hanno generato una sorta di anti-destino. L’inseminazione artificiale, la possibilità di leggere nel Dna e curare le malattie genetiche: così la scienza ha superato i vincoli, prima indissolubili, delle leggi di Dio. Trovo molto interessante anche l’informatica, che ha rivalutato l’algebra di Boole: una teoria che sembrava non servire a nulla e poi è diventata la base dei nostri calcolatori». 

C’è un insegnamento da trarre? 
«Dimostra che la ricerca di base ha una sua fantasia esatta. Bisogna lasciarle spazio, non puntare solo alla ricerca applicata e i frutti si raccoglieranno tra 50 o tra 200 anni. Anche la radio di Marconi senza le equazioni di Maxwell non sarebbe mai nata». 

Il progresso tecnologico sempre più accelerato rende le nostre vite più facili o più difficili, secondo lei? 
«Direi diversamente facili. Tutte le generazioni si sono dovute abituare a cambiamenti rapidi e, in fondo, la plasticità è una delle proprietà del cervello umano. Sono contrario a chi se la prende con la tecnica. I benefici sono indubbi, siamo arrivati a poter affrontare malattie un tempo incurabili. Effetti collaterali come il traffico di organi e il parassitismo nelle ricerche - vedi il caso di Stamina - si possono controllare. Deve pensarci la politica. Che dovrebbe badare anche agli effetti di questa crisi, l’aspetto più sinistro dei nostri tempi, con milioni di ragazzi che non lavorano e addirittura si rassegnano». 

Viviamo in un mondo a due velocità, con scienza e tecnologia che corrono e politica e società ancora indietro? 
«Lo vediamo in Italia, ma anche in altri Paesi: i governi scelgono sempre più spesso la strada in discesa e il populismo, evitando di toccare i privilegi. Così lo sviluppo langue e la velocità della politica nel promuovere i cambiamenti è molto bassa. Anzi, sempre più le innovazioni arrivano dal basso, basti pensare al modello delle startup». 

Anche noi dovremmo ripartire dal basso? 
«Dovremmo ripartire dall’istruzione e rimettere la cultura scientifica al centro delle scuole. Sento di troppi licei italiani con i laboratori di fisica e chimica non in funzione per mancanza di fondi. E poi dobbiamo ricordarci che le eccellenze, nella ricerca, le abbiamo anche noi, che a Busto Arsizio si fabbricano i chip per la Nasa e che i sistemi migliori per il trattamento delle malattie renali li hanno inventati a Mirandola».

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