Le stimmate, le visioni e le parole supreme del religioso
Pietro Citati
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Corriere della Sera
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, 4 novembre 2013
Credo che la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio (La letteratura francescana vol. IV, La leggenda di Francesco, a cura di Claudio Leonardi, traduzione di Mauro Donnini, commento di Daniele Solvi, pp. XXI-440, Fondazione Lorenzo Valla — Mondadori) sia la più bella vita di santo conosciuta dalla tradizione cristiana. Come nella vita di Tommaso da Celano (La letteratura francescana, vol. II, Le vite antiche di san Francesco, pp. 614), san Francesco, quest’uomo piccolo, mite, umile, poverissimo, è l’uomo assolutamente nuovo: mai si giunse così lontano, nella febbrile rincorsa spirituale del futuro.
Più Francesco è nuovo, più affonda nell’antico: imita l’antico; non è altro che l’incessante novità dell’antico. Come l’arcobaleno nella Bibbia, Francesco è il segno della nuova alleanza stabilita tra Dio e gli uomini: è Mosè, Giobbe, Giovanni, Battista, Gesù Cristo, un angelo dell’Apocalisse. In primo luogo, è Cristo: «O uomo veramente cristianissimo — scrive Bonaventura —, che, con perfetta imitazione, si prodigò, per essere confuso, da vivo, al Cristo vivo, da morente, al Cristo morente, da morto, al Cristo morto».
Se leggiamo Bonaventura, e attraverso di lui risaliamo ai Vangeli, e a tutti gli eventi e le parole che stanno prima dei Vangeli, abbiamo l’acutissima sensazione di essere avvolti nel loro profumo e nella loro musica. Mentre Francesco parla, Gesù Cristo torna a parlargli e a parlarci. Non una parola è inesatta, non una parola è sbagliata: tutto ciò che Gesù — Francesco dice, «penetra nelle parti più profonde del cuore, al punto da suscitare un intenso stupore in chi lo ascolta». Gesù Francesco dice e Francesco ripete: «Non portate nulla durante il viaggio»; «Chi vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Così anche noi siamo tentati di rinnegare noi stessi e di prendere la nostra croce, seguendo durante il viaggio chi, duemila anni or sono, aveva percorso, con leggerezza, dolore e un piccolissimo viatico, le strade e le acque di Palestina.
La Legenda maior non è la prima vita di san Francesco. Bonaventura era stato incaricato di scrivere la vita definitiva di Francesco nel Capitolo generale di Narbona del 1260: la sua opera venne approvata nel Capitolo di Pisa del 1263; e nel Capitolo di Parigi del 1266 fu presa la decisione, come era abitudine nel medioevo, di distruggere tutte le biografie precedenti, sebbene la decisione non venisse applicata alla lettera. Mi piacerebbe sapere cosa i francescani trovassero di nuovo nella prosa sublime della Legenda maior. Rispetto a Tommaso da Celano, a Giuliano di Spira, alla Lettera dei tre compagni e agli altri antichi testi anonimi, credo che essi vi ritrovassero una voce perennemente estatica: una mirabile ebbrezza mistica: lacrime e gioia: preghiera ininterrotta: la conoscenza di tutti gli animi umani e delle cose celesti, ottenuta non attraverso la cultura dei libri ma l’immediata rivelazione di Dio; in una parola, come scriveva Bonaventura, «il carbone ardente», il «fulgore eterno» di Cristo. Mi scuso se parlerò soltanto di un episodio della Legenda maior: le pagine dedicate alle stimmate di Francesco.
Probabilmente nel settembre 1224, due anni prima di morire, Francesco si reca «in un luogo eccelso e solitario», il Monte della Verna, dove rimane quaranta giorni: esso gli richiama alla memoria tre altri monti, il Sinai, dove Mosè aveva ricevuto le tavole della legge, e i due altri monti dove Gesù aveva conosciuto la tentazione e la trasfigurazione. Francesco ama e ricerca i segreti della solitudine e della quiete: vi si dedica liberamente a Dio, «così da ripulirsi se gli era rimasto attaccato un qualsiasi granello di polvere, proveniente dalla vita cogli uomini». In quei giorni viene inondato dalla dolcezza della contemplazione divina, e infiammato ardentemente dal fuoco dei desideri celesti.
Un giorno, Dio gli ispira la lettura del Vangelo. Francesco prende il libro: lo fa aprire tre volte da un compagno; e tutte le volte il Vangelo gli rivela un episodio della passione di Cristo. Allora, Francesco comprende che, se per tutta l’esistenza aveva imitato la vita di Gesù, ora , giunto presso la morte, deve essere «conforme al Signore» nelle sofferenze e nei dolori della passione. È stanco e debole: marchiato dai segni visibili e invisibili della croce: ma non ha nessuna paura, perché egli ha cercato da sempre il martirio, «le fiaccole di fuoco e di fiamme», «l’insuperabile incendio dell’amore di Cristo». La dolcezza della compassione lo trasforma nel suo Signore: senza che nulla accada in apparenza, egli è già spiritualmente crocifisso, con le mani e i piedi forati dai chiodi, e il fianco destro trapassato dalla lancia.
Qualche giorno dopo, di mattina, Francesco ha una visione: come sia Tommaso da Celano sia Bonaventura ripetono. Della visione, esistono due versioni. Tommaso racconta che Francesco, presso il Monte della Verna, vede un uomo «simile a un serafino con sei ali, inchiodato a una croce, con le braccia distese e i piedi uniti»; due ali sono spiegate sopra il capo, due protese per volare, e le due ultime velano tutto il corpo. Tommaso non dice che l’uomo-serafino inchiodato alla croce sia il Cristo: lo pensa certamente e lo ripete più tardi, perché altrimenti la storia delle stimmate non avrebbe avuto significato; ma cela, con una nube di pudore e di discrezione, il nome prodigioso del Signore. Quanto al serafino con sei ali, qualsiasi lettore della Bibbia lo aveva incontrato in Isaia (e in Ezechiele ). I serafini con sei ali, gli incandescenti, erano creature angeliche che si avvicinavano al «carbone ardente» di Dio, senza scorgerlo. Nella letteratura cristiana, il serafino diventò Cristo.
La visione di Bonaventura è completamente diversa: egli non ha nessuno ritegno a pronunciare il nome Signore, anzi lo ripete. Perché, in quella mattina, presso il Monte della Verna, Francesco conosce, secondo Bonaventura, due visioni del Cristo, separate tra loro. Il primo è un serafino con sei ali, «tanto infuocate quanto splendenti», che scende dal cielo in volo rapidissimo: esso è la «sublime similitudine del serafino», avvicinato e opposto «all’umile effige di Cristo». La seconda visione, che appare in mezzo alle ali, vicinissima alle ali, sino quasi a confondersi con esse, è il crocifisso che salì sulla croce nei Vangeli, e ancor ora, nel cielo della Verna, «ha le mani e i piedi confitti a una croce». Il rapporto tra le due figure è «inscrutabile»: possiamo soltanto dire che il Cristo-serafino non sopporta la sofferenza della passione, perché il suo spirito non può accordarsi con essa. Come chiamarlo? Forse potremmo dire, come scrisse Francesco, che il figlio di Dio è per natura «immortale, invisibile, ineffabile, incomprensibile, inaccessibile»: Cristo immortale e ineffabile è il serafino, e a rigore non soffre né patisce, sebbene appaia nella sua paradossale forma angelica. Con queste due figure, Bonaventura esprime mirabilmente l’infinita complessità teologica della sua visione del Figlio.
In Tommaso da Celano, il silenzio avvolgeva il misterioso serafino inchiodato alla croce. In Bonaventura, la prima visione di Cristo, il serafino infuocato e rapidissimo, parla. Non sappiamo cosa dica, ma parla: secondo Francesco, disse «alcune cose che per tutta la vita egli non avrebbe dovuto rivelare a nessuno». «Senza dubbio è da credere — aggiunge Bonaventura — che le parole di quel santo serafino siano state così ineffabili, che forse non era lecito agli uomini proferirle». Qui raggiungiamo la vetta della rivelazione: queste parole taciute rappresentano il culmine ineffabile e incomprensibile, che né Francesco né Bonaventura osano rivelare. Mentre il serafino parla, sorride a Francesco: il suo sorriso è pieno di amabilità e di ammirazione; e Francesco prova letizia davanti a questa gioia sovrannaturale che lo avvolge.
Dopo il radioso sorriso celeste, il racconto si capovolge. La visione, che finora aveva riempito lo spirito di Francesco con le immagini del serafino e del crocifisso, scompare: la mente del santo resta vuota. Qualcuno potrebbe credere che, a causa di questa scomparsa e di questa assenza, egli perda il suo ardore e la sua gioia: forse, la sua stessa fede; mentre, al contrario, la visione, scomparendo, lascia nel cuore «un mirabile ardore».
In questo preciso momento, avvengono le stimmate : parola usata solo da Paolo; vale a dire l’imitazione di Cristo, che ora accade per la prima volta nella storia cristiana. Gesù aveva conosciuto il «martirio della carne»: i chiodi di ferro nelle mani e nei piedi: il colpo di lancia nel fianco, che aveva versato sangue e acqua (solo sangue, secondo Bonaventura). Sopra e attorno a lui, c’erano Dio, i fedeli timorosi, e i soldati che lo torturavano. Nel caso di Francesco, non c’è nulla di esterno: non ci sono fedeli né soldati, e nemmeno un Dio che agisca nel mondo reale. Tutto avviene, a poco a poco, con evidente lentezza, nello spirito, nel cuore e nel corpo di Francesco: la visione incendia lo spirito; la carne, a sua volta incendiata, imita i segni lasciati nel crocifisso, che un momento prima era apparso, presso il Monte della Verna, tra le ali del serafino.
Qualche pagina più tardi, avviandosi alla conclusione della Legenda maior, Bonaventura ci spiega che, in quel momento, presso il Monte della Verna, Dio lavora sul corpo del suo amatissimo santo, come uno scultore-pittore nel più sublime degli atelier. Egli trasforma la carne di Francesco: escrescenze, simili a teste di chiodi di ferro, rotonde e nere, fuoriescono nella parte interna delle mani e in quella superiore dei piedi; mentre le punte dei chiodi di carne, allungate, ritorte e ribattute, si ripiegano sulla parte opposta della ferita.
Qui Bonaventura riprende, quasi alla lettera, una pagina di Tommaso da Celano: tutto è minuziosissimo e dettagliatissimo; mentre, poco prima, aveva rivelato con oscura rapidità i segreti più profondi della sua cristologia. Questa minuzia visiva non deve stupirci. Le stimmate sono anche un’opera d’arte: un capolavoro d’arte divina; quei chiodi rotondi e neri come il ferro, che imprimono il loro nero nella carne bianchissima di Francesco, quella ferita del fianco che rosseggia come il fiore rotondo della rosa primaverile, suscitano «piacere e ammirazione» in tutti coloro che contemplano il corpo vivo e morto di Francesco.
«Siccome è cosa buona tenere nascosto il segreto del Re», Francesco vuole celare le stimmate: specialmente la ferita del fianco, che per lui, come per il Vangelo e la prima lettera di Giovanni, possiede un importantissimo valore simbolico. Dio vuole che le stimmate vengano rivelate: Bonaventura obbedisce al volere di Dio; e racconta, specie nell’appendice della Legenda, una serie di miracoli che mostrano la forza prodigiosa dei segni sacri. Una sola cosa resta nascosta: le parole pronunciate dal serafino con sei ali, presso il Monte della Verna. Proprio perché esse sono assolute parole del Cristo supremo, e contengono probabilmente il segreto della Legenda, Francesco e Bonaventura pensano che «non sia lecito agli uomini di proferirle».
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