domenica 3 novembre 2013

Verità pericolose. Da Socrate a Don Chisciotte, il destino di chi cerca giustizia


L’uno difendeva la libertà di pensiero; l’altro l’ideale 
Ecco perché ogni uomo può rispecchiarsi in loro

Alberto Manguel

"La Repubblica", 19 ottobre 2013

Il testo di Manguel è parte del suo intervento scritto per “L’altra metà del libro”, 
il festival da lui curato e in corso fino a domani al Palazzo Ducale di Genova. 
Tema di questa seconda edizione è “Irruzioni di memoria”. 
Tra gli ospiti Roberto Calasso, Emmanuel Carrère, Eduardo Galeano, Melania Mazzucco, Elizabeth Strout, Timur Vermes


Il 19 gennaio 2007, lessi che il giornalista turco di origine armena Hrant Dink era stato assassinato a Istanbul da un nazionalista turco, un ragazzo di appena diciassette anni, perché aveva criticato la negazione del genocidio armeno da parte del governo. Uccidere i giornalisti che tentano di dire la verità è un costume consacrato dal tempo e le giustificazioni addotte per questo crimine godono di una tradizione altrettanto antica (uso i termini “consacrato” e “godono” a ragion veduta). Da San Giovanni Battista a Seneca da Rodolfo Walsh ad Anna Politkovskaja, i dicitori di verità e i loro giustizieri occupano uno scaffale sorprendentemente vasto nelle nostre biblioteche.
Poco più di ventiquattro secoli fa, nel 399 a. C., tre cittadini ateniesi portarono in tribunale il filosofo Socrate, perché ritenuto una minaccia per la società. Al termine del processo, durante il quale accusa e difesa presentarono le rispettive tesi, la maggioranza della giuria, formata da rappresentanti dei cittadini ateniesi, riconobbe Socrate colpevole e, con singolare severità, lo condannò a morte. Qualche tempo dopo, Platone, il discepolo che forse più di ogni altro amò Socrate, trascrisse il suo discorso di difesa che è giunto fino a noi con il titolo di Apologia. In esso, Platone fa discutere a Socrate molti argomenti: il concetto di empietà, il carattere dei suoi accusatori, le imputazioni di eresia, corruzione dei giovani e oltraggio all’identità democratica ateniese. Quest’ultima accusa echeggia ancor oggi curiosamente familiare. E, come un filo luminoso che corre lungo tutta la sua disquisizione, Socrate analizza la questione delle responsabilità dei cittadini in una società giusta.
Circa a metà del suo discorso, il filosofo prende in considerazione i rischi a cui si espone chi voglia dire la verità nel mondo della politica. «Nessun uomo sulla terra che, coscienziosamente, impedisca il verificarsi di ingiustizie e di illegalità nel proprio stato di appartenenza», dice Socrate, «potrà mai salvare la propria vita. Il vero difensore della giustizia, che intenda sopravvivere anche per breve tempo, deve necessariamente confinarsi nella vita privata e abbandonare la politica».
Non c’è dubbio. A partire dai primi profeti, è lunga la lista di chi, avendo detto la verità, ha pagato con la vita questa vocazione umana, e ogni anno Amnesty International pubblica un corposo elenco di persone detenute in tutto il mondo, per la sola ragione di aver fatto sentire la propria voce. Hans Christian Andersen, nei Vestiti nuovi dell’imperatore, dimenticò di dirci che cosa accadde al bambino che fece notare che l’imperatore, in realtà, non aveva niente addosso. Non ci sorprenderebbe di certo scoprire che il suo non fu un destino felice.
Socrate spiega alla corte di essere più che consapevole dei rischi che si corrono nel dire la verità. La persona che si oppone a ingiustizie e illegalità, osserva Socrate, paga con la vita la sua scelta di dire la verità su queste ingiustizie e illegalità. Fin qui tutto è chiaro. Ma poi, Socrate, per il quale il perseguimento della verità è, come dovrebbe essere per ciascuno di noi, l’obiettivo primario dell’esistenza, prosegue dicendo che, se una persona vuole salvare la pelle «anche per breve tempo», questo obiettivo va circoscritto alla sfera privata e non è permesso che debordi nel più vasto ambito sociale.
Ma come è possibile fare questo?
A meno che il tono di Socrate non voglia essere pericolosamente ironico, proprio lui, più di chiunque altro, dovrebbe sapere che ogni volta che si ricerca la verità, ogni volta che si mette in dubbio una bugia, ogni volta che si tenta di smascherare una frode, un’impostura, un inganno, ogni volta che si fa notare che l’imperatore in realtà è nudo, si deve necessariamente sconfinare proprio in quel terreno comune, in quel mondo che abitiamo con i nostri concittadini. Ai due estremi della vita siamo soli, nel grembo materno e nella tomba, ma lo spazio che intercorre tra essi è un regno condiviso, in cui i diritti e le responsabilità di ciascuno sono definiti dai diritti e dalle responsabilità dei nostri vicini, e ogni spergiuro, ogni falsità, ogni tentativo di nascondere la verità danneggia chiunque in quel regno, incluso, in fin dei conti, lo stesso mentitore. Dopo che Socrate fu costretto a porre fine alla propria vita, gli ateniesi si pentirono, chiusero ginnasi e palestre in segno di lutto, bandirono due degli accusatori da Atene e condannarono a morte il terzo.
Socrate era consapevole che ogni società si definisce in due modi: attraverso ciò che permette e attraverso ciò che proibisce, attraverso ciò che include, riconoscendolo come propria immagine, e attraverso ciò che esclude, ignora e nega. Ogni cittadino che vive all’interno delle mura di una società ha un doppio obbligo: quello di obbedire a queste comuni inclusioni ed esclusioni (vale a dire, alle leggi della società) e l’obbligo verso se stessi. Una società viva deve avere, all’interno del proprio tessuto, gli strumenti per consentire a tutti i cittadini di mettere in atto questo doppio dovere: quello di obbedire alle leggi e quello di metterle in discussione, quello di rispettarle e quello di cambiarle.Una società che permetta ai cittadini soltanto uno dei due doveri (una dittatura o uno stato anarchico) è una società che non ha fiducia nei propri principi ed è perciò a rischio di estinzione. Gli esseri umani hanno bisogno della protezione comune della legge, come pure della libertà di dare voce ai propri pensieri, alla propria testimonianza, ai propri dubbi, tanto quanto hanno bisogno della libertà di respirare. Questo è fondamentale.
Forse ci è più facile comprendere le parole di Socrate se le ascoltiamo riecheggiare in un suo distante e bizzarro discepolo, un certo gentiluomo della Mancia che, ossessionato dalla lettura dei romanzi cavallereschi, decide un giorno di diventare lui stesso un cavaliere errante per mettere in pratica i precetti di valore e onestà «per accrescere il proprio onore e servire il proprio paese». Come Socrate, Don Chisciotte conosce i rischi nel tentare di «impedire il verificarsi di ingiustizie e di illegalità nel proprio stato di appartenenza». E per questo, Don Chisciotte viene considerato un pazzo.
Ma che cos’è esattamente la sua pazzia? Don Chisciotte scambia i mulini a vento per giganti e le pecore per guerrieri, e crede in cavalli volanti e incantatori, ma al di là di tutte le sue fantasie, ha fede in qualcosa di solido come la terra su cui cammina, ossia la necessità perentoria di giustizia. Le visioni fiabesche di Don Chisciotte sono immaginazioni circostanziali, modi per far fronte al grigiore della realtà. Ma nell’impeto della sua passione e nelle sue incrollabili convinzioni, egli ritiene che gli orfani debbano essere aiutati e le vedove salvate – anche se, a causa delle sue azioni, il destino sia del salvatore che delle vittime peggiora. Ecco il grande paradosso con cui Cervantes ci mette a confronto: la giustizia è necessaria anche se il mondo rimane ingiusto. Le azioni malvagie non devono rimanere incontrastate, quand’anche dovessero seguire mali maggiori. Jorge Luis Borges fa esprimere questo concetto a uno dei suoi personaggi più terribili: «Che il Paradiso esista pure, anche se il mio posto è all’Inferno» .

Traduzione di Giovanna Baglieri

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