Esce in Italia da Indiana un’antologia dello scienziato britannico
che scoprì l’antimateria
Sposò, nel nome della bellezza, la meccanica quantistica con la relatività.
Il Nobel nel 1933
Giulio Giorello
“Corriere della Sera -La Lettura “, 17 novembre 2013
«Il matematico partecipa a un gioco di cui inventa le regole, mentre il fisico partecipa a un gioco le cui regole sono fornite dalla Natura; ma con il passare del tempo diventa sempre più evidente che le regole che il matematico trova interessanti sono quelle stesse che la Natura ha scelto». Così, sul finire degli anni Trenta del secolo scorso, Paul Adrien Maurice Dirac riformulava l’intuizione di Galileo per cui il mondo è un libro «scritto in caratteri geometrici». Curiosamente, in un momento in cui spesso si lamenta la mancanza di coraggio dell’editoria italiana, è proprio nel nostro Paese che, per la prima volta al mondo, esce un’antologia degli scritti in cui il grande fisico britannico affronta il tema del ruolo della matematica nella scoperta scientifica. Il curatore, Vincenzo Barone, professore di Fisica teorica all’Università del Piemonte orientale, fa propria la battuta che Dirac vergò su una lavagna a Mosca il 3 ottobre 1956: «Le leggi della fisica devono essere dotate di bellezza matematica». E non a caso è stato scelto come titolo del volume La bellezza come metodo. Saggi e riflessioni su fisica e matematica (Indiana editore).
Ma se ai tempi di Galileo era Dio a garantire delle buone intenzioni della Natura, Dirac nel periodo della sua maggiore creatività (Nobel per la fisica nel 1933) era più affascinato dalle conquiste sociali del materialismo dialettico sovietico che dalle sottigliezze della teologia, e si guardava bene dallo scandagliare la mente dell’Onnipotente. Uno dei suoi più maliziosi colleghi, il viennese Wolfgang Pauli (anch’egli insignito del Nobel, ma solo nel 1945), soleva dire che «il primo comandamento della religione di Dirac recitava: non c’è alcun Dio, ma Dirac è il suo profeta». Con il passare degli anni Dirac avrebbe a modo suo riconosciuto un ruolo a Dio nell’universo: quello di «un matematico di altissimo livello». Forse la provocazione di Pauli non sarebbe del tutto dispiaciuta a quel genio taciturno, solitario e introverso — per alcuni al limite dell’autismo — che sconcertava gli uditori alla fine di una lezione con osservazioni come questa: «Qualcuno ha una domanda?» «Sì, io. Non ho capito l’ultimo passaggio». «Questa non è domanda; è una constatazione».
Del resto, pare che persino Albert Einstein e Niels Bohr trovassero tanto incomprensibile il suo carattere quanto splendida la sua matematica. Eccentrico tra gli eccentrici, segnato da una tragica storia familiare, appassionato di Chopin e Topolino, timido con le donne, almeno sino al grande amore con Margit (Manci), insofferente dell’arroganza dei politici sia del «mondo libero» che dell’Urss stalinista, scettico sulla possibilità di comunicare a parole buoni sentimenti, Dirac doveva aggrapparsi al suo ideale estetico come a «una roccia che può sopravvivere a ogni tempesta». Come in un dipinto di Raffaello o di Rembrandt, ogni efficace descrizione della realtà fisica deve avere quei caratteri di unità, necessità e semplicità che già nel Settecento, secondo il filosofo irlandese Francis Hutcheson, caratterizzavano i teoremi matematici dotati di bellezza, come osserva ancora Barone (si veda il suo L’ordine del mondo . Le simmetrie in fisica da Aristotele a Higgs , Bollati Boringhieri).
Certo, l’ideale estetico può variare, ma per Dirac la bellezza è sempre rivoluzionaria, nella scienza ancor più che nell’arte. La matematica, per poter essere utilizzata nell’indagine del mondo fisico deve «spostare continuamente i propri fondamenti e diventare sempre più astratta». Questo processo, che probabilmente non avrà mai fine, rivela orizzonti sempre più lontani dalla superficie delle apparenze, così che la stessa crescita della conoscenza della natura sembra affidata «a un’incessante modificazione dei principi che stanno alla base della matematica pura». Vinta la ritrosia dell’innovatore che si trova a sfidare la costellazione dei pregiudizi stabiliti, e imbrigliati i suoi stessi demoni interiori, Dirac doveva rivelarsi «il Trotzkij della fisica teorica», come lo ha definito il suo maggior biografo Graham Farmelo (L’uomo più strano del mondo. Vita segreta di Paul Dirac, il genio dei quanti, Raffaello Cortina): Dirac aveva fatto della propria mente «un autentico dispositivo per ipotizzare leggi in grado di spiegare le osservazioni empiriche», e in particolare se ne era servito «per combinare un matrimonio improbabile tra la meccanica quantistica e la teoria della relatività di Einstein nella forma di una bella equazione che descrivesse l’elettrone» (1928). Per poi, pur senza alcuna indicazione sperimentale che glielo suggerisse, ricorrere a quella stessa equazione per predire l’esistenza dell’antimateria: particelle dotate della stessa massa di quelle ordinarie, ma di carica opposta (1931).
Oggi congetturiamo che ciò che era comparso all’inizio del Big Bang sarebbe stato composto in parti uguali di materia e antimateria; solo più tardi la materia a noi più familiare avrebbe prevalso. Dirac «è stato il primo a intravvedere l’altra metà dell’universo primordiale, e tutto ciò solo tramite la forza del ragionamento». Le conferme sperimentali sarebbero venute solo un anno dopo, quando l’americano Carl Anderson constatò che nei raggi cosmici era presente una particella con le caratteristiche predette dalla teoria di Dirac, che battezzò «positrone». Adesso sappiamo che persino noi esseri umani conteniamo dell’antimateria, e che quella prima antiparticella può salvarci la vita, come dimostra l’impiego clinico della Pet (ovvero tomografia a emissione, appunto, di positroni)!
Questo radicale ripensamento della struttura della realtà e della nostra esistenza inevitabilmente rimanda a quella «meraviglia» — una miscela di «speranze e paure», come recita il titolo di uno (1969) dei saggi raccolti in La bellezza come metodo — che per gli antichi era la molla dell’interrogazione filosofica. Eppure, confessava Dirac in un’intervista rilasciata nel 1962 ad Alberto Cavallari per il «Corriere della Sera» (raccolta l’anno successivo nel volume L’Europa intelligente , Rizzoli), «quando ho anticipato la scoperta dell’antimateria, e quindi dell’antimondo, tutti hanno parlato di filosofia. Ma io non l’ho cercata questa filosofia. Sono stato costretto ad accettarne l’esistenza dalla matematica»
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