Melania Mazzucco
"La Repubblica", 20 ottobre 2013
Cosa fanno gli artisti quando scoppia la guerra? La evitano? La cercano? La polvere da sparo e la dinamite zittiscono l’arte o la infiammano? I pittori si arrendono alla brutalità della storia? Oppure, imperturbabili ma non indifferenti, continuano a creare, per opporre alla violenza che annienta la forza della vita?
Nel 1914 Claude Monet ha 74 anni. È un patriarca con la barba da profeta — bianca, lunga, folta. Padre della pittura moderna e di una famiglia sterminata, ha cresciuto due figli suoi e sei della compagna — poi moglie — Alice, che è scomparsa nel 1911, lasciandolo vedovo per la seconda volta. Meteoropatico, è d’umore malinconico, talvolta tetro. In febbraio è morto prematuramente il suo primogenito. L’epica stagione dell’impressionismo è lontana: ciò che suscitò scandalo e scherno è stato assimilato. Si sono già succedute altre avanguardie — simbolisti, nabis, puntinisti, fauves, cubisti, futuristi... Monet si è appartato dall’agone artistico. Non espone più in gruppo e dal 1888 solo in personali. Venerato dai giovani, li tiene a distanza e non vuole allievi. Parigino di nascita cresciuto a Le Havre, dal 1883 vive in campagna, a Giverny, a 70 chilometri dalla capitale. Col tempo, ha ampliato la proprietà e ridisegnato il paesaggio circostante: ha costruito ponti, scavato uno stagno, piantato fiori esotici — peonie, iris, crisantemi, giacinti, ninfee — trasformandolo in un lussureggiante giardino artificiale, vagamente giapponese. Le specie straniere hanno suscitato le (vane) proteste dei contadini: Monsieur Monet avvelena l’acqua, mucche non potranno più abbeverarsi... I fiori di Giverny, piantati inizialmente per diletto, lo hanno sedotto. Ne segue la crescita, soffre quando l’inverno li gela, proibisce ai nipotini di giocarci vicino e a chiunque di toccarli. Essi — per gli altri — sono tabù. Ormai ha smesso di dipingere il mare, i treni, le stazioni, le città straniere. Non viaggia più per procurarsi soggetti da dipingere. Il giardino di Giverny è divenuto l’unico soggetto della sua pittura.
Non ha perso l’abitudine di dipingere le variazioni della luce ‘en plein air’. Pianta ancora il cavalletto vicino allo stagno e trascorre ore in una poltroncina di vimini, riparandosi dal sole sotto un ombrellone bianco. Ma è anziano, malato e quasi cieco a causa di una doppia cataratta che gli è stata diagnosticata nel 1912: ora all’aperto prepara gli abbozzi, ma la parte più importante del lavoro la compie nell’atelier. Lì ritocca incessantemente le sue pitture. Sovrappone grumi di colore al pigmento già secco, vela, cancella, rinnega, a volte prende a calci le tele, le sfonda, brucia e distrugge. Monet, lento, esasperante, non sa più finire. Le sue opere restano incompiute, provvisorie, aperte. Insegue il sogno faustiano di fermare il sole. Di dipingere la perfezione dell’istante. Insomma, l’impossibile — ciò che per sua natura è invisibile: il tempo.
Durante la guerra, quando il fronte tedesco minaccia Parigi e in città si sente tuonare il cannone, Monet è a Giverny a dipingere ninfee. Ha già creato (nel 1899-1900 e nel 1905-08) due serie di quadri con questo soggetto; 48 ne ha esposti nel 1909 e altrettanti ne ha distrutti. Ma quei fiori acquatici, tanto cari all’immaginario liberty, lo ossessionano. Stavolta però non realizzerà quadri tradizionali, come nelle serie precedenti. Abolirà cielo e orizzonte, disegno e descrizione. Creerà pitture murali enormi, come dovesse decorare le pareti di un palazzo immaginario (nessuno gliele ha infatti commissionate). Chi le guarderà, dovrà sentirsi circondato e consolato dalla natura. La sua decorazione avrà la funzione calmante e terapeutica di un acquario. Per realizzare il progetto, nel 1916 allestisce un atelier più spazioso. Raffigurerà solo l’acqua, gli alberi che vi affondano le radici e le ninfee che vi fluttuano, in ogni minuto del giorno e stagione. Sorprendendo con le più delicate sfumature del colore ogni vibrazione della luce, increspatura di foglia, screziatura di corteccia. Così, fermerà ogni attimo della vita che fugge — e lo metterà in salvo. Per anni, per Monet esisteranno solo i due salici del giardino, le ninfee e i riflessi nell’acqua — uno specchio ondeggiante e mobile, che cambia e respira.
In una foto scattata allora a Giverny si vedono lo stagno, le ninfee che vi galleggiano e l’ombra di una testa. È il vecchio Monet col cappello di paglia, che guarda ciò che dipingerà e che noi guarderemo. Di lui però resta solo l’ombra. Il pittore ha attraversato lo specchio: ora è dall’altra parte. È l’immagine di un congedo: ma felice, quasi entusiasmante.
I due salici, composizione formata da 4 pannelli lunghi ciascuno più di 4 metri, è uno dei tasselli di quest’opera che ha la trasparenza di un sogno — paragonata a una musica di Debussy o a un poema di Mallarmé. Gli alberi inquadrano lo spazio come colonne. Ma Monet rifiuta la prepotenleza della linea retta: i tronchi si curvano, armoniosamente. Le foglie e le ninfee nello stagno sembrano vaporizzate, e hanno la stessa brumosa inconsistenza delle nuvole che si specchiano nell’acqua. Il riflesso instabile non è meno reale dell’oggetto. E non si sa chi rifletta cosa. La tonalità dominante è fredda, rosa-malva-blu, perché è l’ora dell’alba. L’immagine fantasmatica e sfumata si legge meglio da lontano. Da vicino la materia pittorica è così spessa e granulosa da diventare indecifrabile. Proust osservò che Monet era riuscito a dipingere il nulla. Non ciò che si vede, poiché non si vede niente, ma il fatto stesso di non vedere. L’indeterminato genera bellezza: è una vecchia regola del sublime estetico.
Nel 1918 la Grande Guerra finisce, e alla patria vittoriosa Monet vuole offrire un monumento. Però non sarà un inno alla morte. Dona alla Francia le 19 gigantesche
Ninfee che l’hanno occupato durante il massacro dell’Europa. Tuttavia non se ne priva e le trattiene nell’atelier — rilavorando quella pittura vivente, che cesserà di mutare solo nel 1926, con la sua morte. Nel 1927 lo Stato francese può installare leNinfee all’Orangerie delle Tuileries, e farne la “Cappella Sistina dell’impressionismo”. All’inaugurazione il pubblico, sconcertato, non capì il senso di quel dono. Eppure era ovvio. Monet aveva offerto al suo paese una vegetale, liquida antitesi dei bronzi funebri e retorici che stavano sbocciando in tutte le piazze del continente. La pazienza dell’acqua, il pianto degli alberi, la fuggevole esistenza delle nuvole e la bellezza ostinata dei fiori contro la distruzione, le piramidi di ossa e il veleno del sangue.
Claude Monet, I due salici (1916-1920 circa), 2 x 17 mt, olio su tela, Musée de l’Orangerie Parigi
Nessun commento:
Posta un commento