Quattro giorni per il mestiere più trascurato (e riscoperto)
Cristina Taglietti
“Corriere della Sera“, 21 novembre 2013
Il traduttore non è più un fantasma. Almeno per i quattro giorni di Bookcity, uno dei «mestieri del libro» più importanti (e trascurati) della filiera editoriale si prende il suo spazio. Sui palcoscenici milanesi si danno appuntamento i più noti e apprezzati traduttori italiani, da Ilide Carmignani a Daniele Petruccioli, da Martina Testa a Yasmina Melaouah. Si parlerà di come si diventa traduttori, di che cosa significhi tradurre i classici (con il poeta Milo De Angelis), delle sfumature (lessicali) del giallo. Mentre molti editori, da Einaudi a Voland, propongono classici della letteratura in nuove versioni, a Bookcity il traduttore risponde, racconta, insegna offrendo l’occasione di fare il punto sulla professione. Si comincia oggi, al Dipartimento di lingue della Fondazione Milano con la prima delle lezioni aperte. A condurla Bruno Osimo scrittore (Dizionario affettivo della lingua ebraica , Marcos y Marcos) , teorico della traduzione (ha scritto saggi e manuali, traduttore dal russo e dall’inglese: Cechov, Tolstoj, Steinbeck, Spender, da poco sono usciti da Voland Racconti di Odessa di Babel’).
Osimo su questo mestiere ha un’idea precisa: «Credo che stia succedendo qualcosa di simile a quello che è successo in campo enologico. Fino a qualche tempo fa la maggior parte delle persone non sapeva distinguere un vino nel cartone da un Brunello di Montalcino. Allo stesso modo spesso gli editori pensano che il lettore non sia in grado di distinguere una buona traduzione da una cattiva e puntano soltanto a pagarla il meno possibile. Con il risultato che persone che lavorano da venti o trent’anni si vedono rimpiazzate da giovani, magari loro allievi, che, anche giustamente, accettano tariffe da fame. Rispetto a questo tema ci sono i lamentosi e quelli, come me, che invece pensano che si debba lavorare sulla qualità. Come i vinificatori sono riusciti a imporla anche per il vasto pubblico, così possiamo fare anche noi». Di certo di traduzione non si vive. «Era possibile quando io ho iniziato, nel ‘ 78. Ho mantenuto una famiglia con due figli, oggi non si può più. Io infatti insegno e scrivo libri, attività che, rispetto alla traduzione, è anche più remunerativa».
Se dal punto di vista del riconoscimento economico la situazione è difficile, secondo Franca Cavagnoli, scrittrice e traduttrice dall’inglese (la indirizzò Pontiggia), in particolare di autori della letteratura post-coloniale (Coetzee, Naipaul, Mansfield, ma anche Francis Scott Fitzgerald) «oggi c’è un maggiore riconoscimento del nostro lavoro, da parte di critici e recensori. Siamo meno invisibili, anche se, per i più giovani, le condizioni di lavoro sono davvero difficili». Cavagnoli, che tiene corsi alla Statale e alla Fondazione Milano, crede molto all’insegnamento della teoria che, però, deve andare di pari passo con il confronto con il testo. Domenica parlerà della traduzione dei Racconti di Francis Scott Fitzgerald fatta per Feltrinelli: «Dopo Il grande Gatsby mi avevano chiesto Tenera è la notte , ma non riesco più a lavorare su testi molto lunghi, a tenermi dentro, per tanto tempo, tutti i rimandi, le isotopie. È come aver dentro un teatro molto affollato, è faticoso da un punto di vista psichico. Così ho controproposto questa raccolta che dovrebbe affiancare all’immagine classica di Fitzgerald cantore dell’età del jazz, quella, più malinconica, di cantore dell’età del blues. È un progetto a cui tengo molto, ho affidato la traduzione agli studenti migliori degli ultimi anni, di cui io poi ho fatto la revisione. È stato un modo molto utile e interessante di unire la pratica e la teoria».
Quello che è certo è che oggi lo spirito delle traduzioni è cambiato e, come dice Osimo, lo slogan francese «belle e infedeli» che sostanzialmente promuoveva l’invadenza della voce del traduttore su quella dello scrittore, è superato. Rigore e attenzione estrema al testo è il punto di partenza indispensabile anche per Cavagnoli: «Io devo capire fino in fondo il testo, scavare nella lettera, cogliere l’intenzione. Per me è molto importante che sia il lettore ad avvicinarsi all’autore, non viceversa».
Cercare un «punto di equilibrio tra fedeltà e bellezza» è quello che ha fatto anche Laura Frausin Guarino, da quasi quarant’anni traduttrice dal francese, mestiere a cui è arrivata attraverso Vittorio Sereni, suo professore di italiano al liceo, che la introdusse in Mondadori. Frausin Guarino ha cominciato con la saggistica (Foucault, Baudrillard) ma ha tradotto anche molta narrativa, soprattutto Simenon e ora Némirovsky. Con Adelphi ha un rapporto quasi esclusivo: «I loro tempi sono i tempi del traduttore, sanno quali autori sono nelle mie corde e quali no». Simenon è sempre una sfida: «Ha una scrittura apparentemente semplice, le sue frasi sono scandite, è capace di descrivere un’atmosfera, un personaggio, un odore, con una parola, un aggettivo,ma quando si tratta di trovare un equivalente sintattico in italiano è molto meno facile. Non è possibile sovrapporsi all’autore pensando di essere originali. Bisogna essere fedeli, anche alla punteggiatura, perché dietro c’è un pensiero».
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