Susanna Nierenstein
"La Repubblica", 27 ottobre 2013
Uno straordinario tuffo nel comunismo reale che si rivela pezzo a pezzo così come è stato nelle vite di chi l’ha abitato, abbagliante e cupo, fatto di visioni e convinzioni ferree quanto di parole vuote e tronfie, e di silenzi, e di cinismo, di coraggi inauditi e vigliaccherie senza fine mai confessate neppure a se stessi, di piccole normalità quotidiane, speranze, mistificazioni, tradimenti, miseria, privilegi, paura, morte. E di poche cose che rimangono in mano. Non c’è bisogno di troppi resoconti storici in questo bell’esordio — che ha vinto il German Book Prize 2011 — del cinquantaseienne Eugen Ruge, anche lui, come il protagonista del romanzo Alexander, fuggito a Berlino Ovest a pochi mesi dalla caduta del Muro, nell’89, per poi fare lo sceneggiatore e il regista. Bastano un’automobile Trabant, l’assassinio di Trotskij, un accenno a Stalin, Gagarin che sfreccia nel cielo, i cetriolini sott’aceto, i muri sbreccati, la notte bianca, il primo Sputnik che fa bip a immergerci Oltrecortina: l’invenzione è la saga, lo scorrere di quattro generazioni in una famiglia della Germania dell’Est, il linguaggio degli uni che diventa incomprensibile ai figli e ancor di più ai nipoti — come nei Buddenbrook — ,la “fede” che traballa sempre più mentre passano, tra un esilio e l’altro, la parola di Mosca, donne che imbracciano il fucile contro i tedeschi e sognano nuove piastrelle per il bagno, donne della nomenklatura che aspirano ad essere loro stesse dirigenti, gulag che ingoiano figli ed è meglio non parlarne, perenni medaglie d’oro a capostipiti - eroi che invece si sospetta non abbiano commesso che errori e delitti, ripensamenti e a volte vergogna sulla militanza svolta — anche questi mai ammessi — camminate nella neve in cerca di un ristorante senza code, litigate su Gorbaciov, passaggi all’Ovest...
In tempi di luce declinante: il titolo dice già molto.
Il romanzo è vibrante, vivo, intelligente, spiritoso, triste, tessuto con arte in un avanti e indietro cronologico, passando e ripassando a volte sulla stessa trama, perfino sugli stessi episodi, a seconda dei punti di vista, accendendo via via nuove luci, nuove prospettive, nuovi smarrimenti. Al primo posto Alexander, detto Sasha, che nel 2001 apre il racconto quando ha appena saputo di avere un linfoma incurabile e decide di abbandonare il padre, Kurt, un celebrato storico del passato regime (come il babbo di Eugen Ruge), ormai solo e demente: Sasha vuol fare un viaggio della memoria, cercare il quid della propria famiglia, trovare risposte alle mezze verità, stare al sole, vuole andare in Messico, dove i suoi nonni, Charlotte e Wilhelm — personaggi quasi mitici, fondatori del partito comunista tedesco negli anni Venti, coinvolti in chissà quali atti gloriosi e giustizie sommarie — hanno vissuto un lungo esilio, non proprio dorato ma quasi. Nel frattempo i figli sono stati in Russia, finiti in un gulag da cui solo uno, Kurt, tornerà. Siamo nel 1952 e un raggiante Wilhelm insieme alla brillante e timorosa Charlotte (li porteranno subito alla Lubjanka o le promesse di reintegrazione erano sincere?) tornano dal Messico in una Berlino Est ancora devastata dalla guerra, ed è sempre qui che nel 1961, a Muro costruito, intorno al tavolo da pranzo si dibatte di democratizzazione e stalinismo:senza Wilhelm però, lui non lo permetterebbe, a lui la divisione forzosa dall’Ovest va assolutamente a genio, lui ce l’ha sempre con i disfattisti. Va molto meno a genio a Alexander, invece: militare nel 1973 a guardia della frontiera, si dispera perché non ascolterà mai i Rolling Stones dal vivo. Sarà capace di andarsene solo nell’89, ironia della sorte, a pochi giorni dalla fine del totalitarismo. Alle spalle ha lasciato una moglie e un ragazzino di dodici anni, che vanno comunque al novantesimo compleanno di Wilhelm, il bisnonno comunista di ferro, un compleanno che vedremo e rivedremo perché riflette tutta la disintegrazione della famiglia e del sistema: per ora il piccolo Markus guarda come fosse «un party di dinosauri » la festa in cui niente funziona mentre si appuntano medaglie e si cantano canzoni nostalgiche sul Partito che non sbaglia mai. Per Markus quegli pterodattili non significano nulla, non gli stanno lasciando nulla: quando pochi anni dopo, nella Germania riunita, andrà via da casa dove sua madre si è risposata con un pastore (un pastore in una famiglia di atei!), non gli resterà che rifugiarsi in sostanze di vari colori.
Difficile raccontare una storia che ruota come una giostra e man mano mostra nuove figure, aspetti, le ambizioni sfrenate della nomenklatura, Berlino Est nel ‘52 senza luce né gas, Kurt nel gulag, Kurt traditore della moglie Irina che pare uscita da un ritratto di Cechov, le infinite discussioni di politica, la devozione ideologica, gli hippy alla deriva tra cui si trova Alexander, ormai alla fine, perso tra persi... Ruge, da buon regista, la scrive con una messa in scena complessa, accattivante, ipnotica. Speriamo che diventi un film.
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