Luciano Canfora
“Corriere della Sera - La Lettura“, 10 novembre 2013
Tradurre è la più vitale delle attività umane. Il cammino della civiltà è una incessante traduzione. Lo capì, ad esempio, un greco d’Asia, che si chiamava Erodoto, il quale vide quanto dal mondo religioso egizio fosse passato nel pantheon greco. I popoli che non traducono, in propria lingua, la civiltà (letteraria, artistica, filosofica, religiosa, scientifica) degli altri o diventano pericolosi o, se non possono essere aggressivi, si condannano al sottosviluppo. Prima o poi se ne renderà conto (al di là dell’attuale suo euforico monolinguismo) il mondo anglosassone, nonostante la forza economico-militare con cui impone agli altri il proprio idioma. Cioè il proprio modello.
Ad Alessandria, nel III secolo a.C. convergevano le culture del mondo conosciuto e schiere di traduttori furono all’opera, come narra un bene informato dotto bizantino, per tradurre da ogni idioma in greco. Non si comprenderebbe la portata di quell’immenso fenomeno che fu l’Ellenismo — in cui si collocano le grandi «letterature di traduzione», da quella latina a quella araba — se non si tenesse conto dell’autentico «dialogo del genere umano» che è, da sempre, il tradurre. E non è un caso che «l’unità del genere umano» e la visione della Terra come «patria comune di tutti gli uomini» fossero i capisaldi delle principali filosofie ellenistiche, quantunque tra loro contrapposte su altri piani.
Almeno dall’Umanesimo in avanti, il tradurre fu pratica fondativa e formativa non più solo nel contatto vivente tra «mondi» concomitanti e persino rivali, bensì, e in pari misura, verso i «mondi» del passato: cioè verso gli antichi e il formidabile loro lascito scritto, scampato all’usura del tempo. L’Umanesimo divenne moderno interrogando, e perciò traducendo, gli antichi greci e romani. Una interrogazione, tutt’altro che tranquilla e passiva, temprata nell’esercizio del comprendere a fondo ciò che l’attività di copia, sulla scala dei millenni, aveva portato a salvazione. Fu quella una interrogazione che, avendo generato e nutrito il Principe e i Discorsi del Machiavelli, il Novum Organum di Bacone e il Sidereus Nuncius di Galilei, può considerarsi a buon diritto l’architrave della modernità. Che ci riguarda tuttora, direttamente.
Un tale imponente fenomeno non si sarebbe dato senza lo sforzo di attrezzarsi a comprendere — cioè a tradurre — quegli antichi nostri interlocutori.
Ma dove nasceva la difficoltà? Non solo nella profondità del pensiero di cui appropriarsi, ma soprattutto nella lontananza . Ed è appunto tale lontananza che fece e fa tuttora di quell’esercizio, di quello sforzo di interrogazione, un cantiere sempre aperto, sempre provvisorio, sempre passibile di prospettive prima non viste. La lontananza infatti comporta che quel lavorio sempre provvisorio del tradurre, consistente nel «colmare i silenzi del testo» (per dirla con Ortega y Gasset), divenga — proprio in ragione della distanza epocale — di gran lunga più arduo e soggettivo che nel tradurre da un contemporaneo. Il quale condivide o combatte le nostre stesse passioni e convinzioni, ha con noi necessariamente tanti presupposti in comune, e perciò, pur in altro idioma, parla non di rado il nostro linguaggio. «Non si può comprendere fino in fondo quella stupenda realtà che è il linguaggio — scriveva Ortega — se non si parte dalla consapevolezza che la lingua è fatta soprattutto di silenzi. Un essere che non fosse capace di rinunciare a dire molte cose sarebbe incapace di parlare. Ogni lingua è una equazione diversa tra l’esprimersi e i silenzi ». E prosegue: «Ogni popolo tace alcune cose per poterne dire altre. Perché sarebbe impossibile dire tutto. Da questo deriva l’enorme difficoltà della traduzione: essa consiste nel dire in una lingua proprio ciò che l’altra tende a tacere. Ma allo stesso tempo si intravede quell’aspetto del tradurre che può costituire una magnifica impresa: la rivelazione dei mutui segreti che popoli ed epoche si nascondono reciprocamente». E perciò egli conclude il saggio, felicemente intitolato Miseria e splendore della traduzione, con le parole di Goethe: «Ciò che è umano è vissuto completamente soltanto da tutti gli uomini nel loro insieme».
In questa straordinaria sintomatologia e diagnosi dell’atto del tradurre è racchiusa la spiegazione di ciò che vediamo così spesso sfuggire alla miopia utilitaristica dei falsi riformatori, da sempre protesi a scacciare «l’aoristo passivo» (vedi Andrea Ichino, «Corriere», 21 ottobre) dal Liceo: cioè dalla scuola più completa e perciò davvero utile.
Non sarà sfuggito quel cenno di Ortega a «popoli ed epoche ». Lo sforzo di tradurre gli antichi, infatti, è quello che comporta il massimo di capacità intuitiva. Chi ha avuto, o per avventura tuttora conserva, una qualche familiarità col patrimonio scritto greco-latino, sa quanto il valore del singolo termine (spesso polisemico e passibile persino di sfumature opposte di senso) si chiarisca solo se si è prodotta l’intuizione di ciò che l’intera frase significhi. E per converso la frase prenderà piena luce soprattutto dalla comprensione delle parole principali che la compongono. È in questa circolarità che si produce il salto verso la comprensione-intuizione. È in questa circolarità che si comprende cos’è il conoscere. È grazie a questa circolarità che si approda al sapere scientifico. In questo senso un promettente linguista approdato alla militanza politica, Antonio Gramsci, scrisse nei Quaderni del carcere che si studia il latino non già per imparare a parlare latino ma per imparare a studiare.
Chi ebbe la felice opportunità di cimentarsi nella comprensione del lascito scritto di quei remoti nostri interlocutori sa che un siffatto processo interpretativo non è mai dato una volta per tutte. Ovviamente è proprio nel cimento scolastico che si mette in moto quel processo. Nel suo nascere e man mano affinarsi nella testa degli scolari esso ha efficacia, forse incomparabile, per il continuo trapassare dall’intuizione alla sintesi. A questo «serve» il tradurre gli antichi a scuola.
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