sabato 1 dicembre 2012

Amore e Psiche


Il matrimonio di due capolavori

Cesare De Seta

"La Repubblica",  1 dicembre 2012

Sin dall’antichità la pittura è considerata da Plinio la più nobile tra le arti figurative. Leonardo da Vinci eleva la pittura a “discorso mentale”, anche perché l’artista non deve sottoporsi al labor fisico che comporta la scultura, e ne esalta la dignità di conoscenza considerandola superiore alla scultura e la colloca tra le arti liberali. Mettere a confronto due opere dello stesso soggetto quale Amore e Psiche di Antonio Canova e di François Gérard, di uno scultore e di un pittore, è idea felice in sé, ma anche o soprattutto per la specifica e singolare pertinenza del marmo e della tela in oggetto. Succede per la prima volta a Milano, a Palazzo Marino. Nella Sala Alessi è allestita da oggi grazie ad Eni, in partnership con il Louvre, questa mostra, che si inserisce nel solco di quelle fortunate promosse dall’azienda negli anni passati: il San Giovanni Battista di Leonardo (2009), la Donna allo specchio di Tiziano (2010) e L’Adorazione dei pastori e il San Giuseppe falegname di Georges de La Tour. Tornando a Canova, lo scultore di Possagno aveva già realizzato tra il 1789 e il ’92 una Psiche stante con una farfalla in mano, da questa prima idea sboccia il gruppo con le due figure stanti abbracciate tra loro. I due bozzetti, al Museo Correr di Venezia e al Museo e Gipsoteca di Possagno, fissano la prima idea: «rapidissima, striata con la stecca sull’argilla per cogliere un istante della rappresentazione che sarebbe stata sviluppata nel primo modello al naturale ed in argilla», ben scrive Mario Cuderzo. Dal bozzetto fu tratta la forma per la realizzazione del modello in gesso definitivo, che è nella Gipsoteca. Il marmo, alto 145 cm, ha un’intenzionalità che per la modulata finezza è proprio definire pittorica; come in un inconsapevole specchio, Gérard dipinge una tela il cui modellato è proprio definire scultoreo. Ciò detto le due opere, accomunate da questo sottile gioco del ribaltamento dei ruoli formali, non hanno nulla in comune nel rappresentare il mito di Amore e Psiche.
Canova a partire dal 1796 per alcuni anni lavorò a questo gruppo su commessa del colonnello inglese John Campbell che aveva incontrato a Napoli nel soggior- no del 1787, ma l’opera non giunse mai in Inghilterra per la difficoltà del trasporto e fu acquistata dal maresciallo Gioacchino Murat, futuro re di Napoli, che la collocò nel castello di Compiègne: questo è l’esemplare al Louvre, mentre la seconda versione con variazioni sul panneggio di Psiche – dopo un giro per l’Europa – giunse in Russia ed è all’Ermitage di San Pietroburgo. Il soggetto di Amore e Psiche risale ad Apuleio, ma Canova nell’iconografia attinse a un dipinto di Ercolano con Fauno e Baccante, e sappiamo quanto fu importante per lo scultore la visita agli scavi delle città vesuviane dissepolte. Quel che va sottolineato è il pensiero che ispira il gruppo: non è né grazioso né eroico, poetiche congeniali a Canova e al Neoclassicismo, come nota Fernando Mazzocca, è piuttosto una riflessione sul concetto di anima, cioè “psiche” in greco, che assume le sembianze della farfalla che la fanciulla regge per le ali. Il dio sembra quasi farsi proteggere dalla fanciulla, è visto di profilo e reclina il capo sulla spalla di lei, un braccio la cinge ponendole la mano sulla spalla. L’altra mano di Amore sembra voglia custodire la farfalla che l’amata ha in mano: Psiche è raffigurata frontalmente e c’è un arcano senso di mistero in questo gruppo che s’evince dall’amorosa intesa tra i due che è pura, esaltata questa purezza dalla straordinaria venustas con cui sono modellati i corpi dei giovani. Che il referente sia la statuaria antica è fuori discussione. François Gérard, nato a Roma nel 1770 dove visse fino a dieci anni, aveva madre italiana e sposò un’italiana, ritornò a Roma dal 1782 al ’86, e poi ancora tre anni dopo all’Accademia di Francia, per essersi guadagnato il secondo posto al Prix de Rome, dopo Girodet. A Parigi nel 1786 era stato ammesso nell’atelier di Jacques-Louis David che lo protesse evitandogli la coscrizione e lo considerò sempre tra i suoi allievi più dotati, tra i quali figurano Girodet, Serangeli, Chaudet e Prud’hon. Ingres entrò nello studio di David nel ’97. È questo il clima culturale in cui matura Amore e Psicheche viene presentata al Salon del 1798, suscitando reazioni contrastanti. Sylvaine Laveissièr ce ne dà conto in catalogo, ricordando il tema del primitivismo e la consonanza con l’antico che furono evocati. Quantunque avesse uno studio al Louvre, Girodet si guadagnò da vivere facendo per anni l’illustratore per opere di lusso dell’editore Pierre Didot, assieme a altri allievi di David, che era il regista di questa prestigiosa collana. Infatti Gérard aveva illustrato lo stesso tema per Les Amour de Psiché et de Cupidon di La Fontaine: ma l’iconografia è assai diversa dal dipinto. I due giovani sono in piedi e si abbracciano con una certa voluttà. Pierre-Paul Prud’hon aveva presentato al Salon del 1793 L’unione di Amore e Amicizia, che è una variazione del tema, ma in tal caso dio e fanciulla sono seduti e inseriti in un contesto paesistico non esente da reminiscenze roccaille. Dunque il dipinto di Gérard è l’esito di una ricerca innovativa e nell’iconografia prescelta ha una variazione molto sensibile rispetto al gruppo canoviano: Psiche è seduta su un sasso, Amore si accosta a lei in piedi, le bacia la fronte e ha due vistose ali. La tela, che misura 186 per 133 cm, fu esposta al Salon dell’anno VI nel 1798 e incarna un’idea di bellezza raffinata e sublime, che evoca la pittura rinascimentale. Psiche ci guarda con il suo bellissimo volto di raffaellesca eleganza, mentre il giovane è visto di profilo col corpo reclinato per accostarsi all’amata. In questa tela alita un’intenzionalità metafisica e neoplatonica, così diffusa in età rinascimentale e resuscitata in età neoclassica, vale a dire l’unione dell’anima umana e dell’amore divino. In tal caso la farfalla volteggia sul capo della fanciulla e non è tra le sue mani. La tela, che era stata preceduta dal gruppo di Canova di alcuni anni, esprime originalmente la sottile mescolanza tra una contenuta sensualità e una certa freddezza. La fanciulla è nuda, solo un velo ricopre gambe e bacino, ha un sguardo sognante. Il paesaggio, in cui sono immersi gli eroi di questo dolce mito amoroso, è idillico, forse con una inclinazione poussiniana.

Il tabù di Eros, dio bello e invisibile
Perché nel mito alla fanciulla-Anima è vietato vedere il suo amante

Umberto Galimberti

Narra il mito che una fanciulla di nome Psiche, figlia di un re, a causa della sua straordinaria bellezza, aveva suscitato l’invidia di Afrodite. La dea allora incarica Eros, suo figlio, di accendere in lei un amore insopprimibile per il più brutto degli uomini, ma Eros, quando la vide, si innamorò di Psiche, la rapì e, dopo averla portata in un luogo segreto, ogni notte, senza farsi riconoscere, la incontrava, per poi lasciarla ai primi raggi di sole senza svelare la sua identità. Ma Psiche, su istigazione delle sorelle che le fecero credere che ogni notte abbracciava un mostro orribile, si accostò ad Eros dormiente con una lampada accesa. E fu allora che si accorse che non di un mostro si trattava ma di un giovane e bellissimo dio. Accadde però che una goccia d’olio cadde sul corpo di Eros che, destatosi, abbandonò Psiche, la quale, in preda alla disperazione per la perdita dell’amato, prese a vagabondare disperata finché giunse nel palazzo di Afrodite che la ridusse in schiavitù. Ma Eros, che non poteva a sua volta trovar pace senza Psiche, riprese a incontrarla, e alla fine i due l’ebbero vinta sulla gelosia di Afrodite e restarono uniti per l’eternità. È curioso che uno dei miti più amati e rappresentati nella storia dell’arte occidentale sia basato proprio sull’invisibilità: Eros non vuol farsi riconoscere da Psiche (l’anima), perché l’amore non ha un volto, non ha un’identità, non ha dei lineamenti riconoscibili, per la semplice ragione che amore è una “forza” che, quando invade l’anima, la possiede e la fa peregrinare, tra entusiasmi e sofferenze, in un mondo fantastico che ha poca attinenza col mondo reale. Infatti, conosciamo Amore non perché lo “vediamo”, ma perché lo “sentiamo”, non perché sta di fronte a noi o abbracciato a noi, ma perché ci “possiede”, e in questo stato di possessione ci fa delirare, ossia uscire dal “solco ( lira) ” in cui monotonamente trascorreva la nostra vita, gettandoci in un’altra vita piena di “entusiasmo” perché, posseduta da amore, l’anima è abitata dal dio (en-theos).
Ma chi sono gli dèi se non la rappresentazione trasfigurata della follia che ci abita, e che quotidianamente teniamo a bada con i nostri sforzi di ragionevolezza che amore rende vani, mettendoci in questo modo a contatto diretto con la nostra follia? Sarà per questo che Platone, che pure ha inventato il nostro modo di pensare e ragionare, parla di amore come di una “divina follia”, anzi della «più eccelsa sotto l’influsso di Afrodite e di Eros» (Fedro, 265 b), e perciò dice che «la follia dal dio proveniente è assai più bella della saggezza d’origine umana» ( Fedro, 244 d). La follia generata da amore non ha un volto, perché tutti i volti sono suoi, perciò non è riconoscibile, non la si può “vedere”, la si può solo “sentire”, anzi “subire”, anzi “patire”. Per questo parliamo d’amore come di una “passione”, perché in preda alle cose d’amore il nostro io, la nostra razionalità “patiscono” una dis-locazione che Socrate chiama a-topia. Amore infatti porta fuori dal luogo (topos) dove solitamente si svolge la vita. Crea uno stato di estraneità rispetto agli spazi e ai tempi che scandivano la nostra esistenza. E-straneo al consueto svolgersi della quotidianità, l’amore e a-topos, è fuori luogo.
Si dirà, ma a differenza di Psiche, io vedo in volto chi mi ha catturato l’anima e mi possiede. Certo, ma non è da lui o da lei che sei posseduta o posseduto, ma dalla tua follia che lui o lei ha risvegliato e con la quale ti ha messo in contatto. Non diresti altrimenti nell’acme dell’amore: “mi fai perdere la testa”, “mi fai impazzire”. Non sono modi di dire, ma modi d’essere nella possessione d’amore.
Per effetto di questo contatto con la propria follia, grazie all’altro o all’altra che l’ha risvegliata, dopo una storia d’amore, qualunque sia il suo esito, non siamo più quello che prima eravamo. Perché, prima della violazione dei corpi, è la nostra anima che è stata violata squilibrando la nostra identità e le sue difese. Siamo entrati in contatto con l’altra parte di noi stessi e il nostro volto non è più riconoscibile come eravamo abituati a conoscerlo. Per questo Psiche non può vedere il volto di Eros. Amore non ha volto. Amore è una forza che possiede l’anima e, dopo averla posseduta, con la potenza che può avere solo un dio, la ri-genera.

Informazioni utili
“Amore e Psiche” da oggi al 13 gennaio 2013 al Palazzo Marino di Milano, Sala Alessi, grazie ad Eni in partnership con il Museo del Louvre i capolavori di Antonio Canova e François Gérard per la prima volta insieme. La mostra gratuita è curata da Valeria Merlini e Daniela Storti. Catalogo: Rubbettino Editore. A Palazzo Reale gli incontri moderati da Lella Costa (4, 11 e 18 dicembre alle 18, gratis con prenotazione)

Amore e psiche

Nel Settecento con l’inizio degli scavi di Pompei ed Ercolano si sviluppa l’attenzione per i particolari archeologici: nasce l’estetica del Neoclassicismo
Quando esplose la passione per l’antico

Anna Ottani Cavina

La passione bruciante per il mondo antico era scoppiata più o meno negli anni Quaranta del Settecento e coincide con la “resurrezione” delle città sepolte di Ercolano e Pompei e la conseguente caduta dei modelli correnti di conoscenza. L’incontro con i primi scavi era stato a dir poco uno choc, se l’eccitazione di quegli anni, segnati dalle scoperte archeologiche (130 campagne di scavo investirono la città di Roma nei soli cinque anni del pontificato di papa Pio VI), può essere còlta nella reazione esaltata di Giovan Battista Piranesi che «aveva escogitato di cuocere ogni domenica una grande caldaia di riso che potesse bastare per tutta la settimana» per potersi precipitare sui luoghi di scavo senza perdere un solo minuto. Nasceva allora il mito di un’antichità esemplare, origine e anche rimpatrio dell’anima classica, paradiso perduto e ancora promesso. Antichità come futuro.
Ma le “colorazioni” dell’età neoclassica, sull’onda di una nuova travolgente passione per l’antico, erano tante e molto diverse. Canova, nell’intero suo percorso di pittore e scultore, legge l’antichità filtrata dal pensiero di Winckelmann, che del Neoclassico era stato il profeta e il teorico. E sceglie il versante di una grazia intellettuale e sublime, tenera e sentimentale, nutrita dal mito di Atene: incontro fra bellezza e natura. Mentre il rapporto bellezza-libertà (dove l’ideale estetico veniva a coincidere con l’ideale politico) aveva alle spalle la fierezza di Sparta e l’etica austera della Roma repubblicana, trovando nelle icone statuarie del pittore Jacques-Louis David la sua definitiva consacrazione nel presente.
L’estetica della grazia come “aurora” della bellezza – chiave di lettura per L’Amore e Psiche di Canova e anche per quello di François Gérard esposti in questi giorni a Milano – fa riferimento a una grazia filtrata dall’intelletto, lontana dall’epidermica sensualità rococò che aveva caratterizzato il primo Settecento, reattiva invece alla purezza, all’innocenza e a quelle inclinazioni affettive, esaltate nell’età dei Lumi e poi di nuovo nell’età romantica. Il manifesto di questa poetica della grazia è naturalmente in una dichiarazione di Winckelmann, che celebra l’eterea eleganza delle Danzatrici dipinte su fondo nero, scoperte in una villa romana a Pompei: «fugaci come un’idea, fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie». Da allora, le danzatrici-libellule della decorazione parietale romana si sono librate per un lunghissimo volo, conquistando l’Europa a un ideale di grazia immateriale e alessandrina.
Canova ne è folgorato. Risponde con una suite di disegni e di tempere su tela grezza, variazioni bellissime sul tema delle danzatrici. E butta all’aria in un soffio il lungo tempo di posa che aveva caratterizzato l’immagine antica. I giochi d’amore della civiltà ellenistica, conosciuti attraverso le campagne di scavo e riletti con lieve ironia, acquistano allora uno scatto e una tensione improvvisa, che affiora in quegli anni anche nelle odi di Foscolo («quando balli disegni, e l’agile corpo all’aure fidando... »).
Contro la lastra compatta di un nero che simulava l’encausto romano, le ballerine di Antonio Canova (oggi si vedono nel museo di Possagno) danzavano gonfiando le loro vesti moderne di mussola à pois, scintillanti ed estrose come in un girotondo di fate, inafferrabili a due passi da noi.
Reintroducevano una cifra stilistica antica, ma erano anche l’emblema di una bellezza scattante e moderna che scivolava nel quotidiano della vita se è vero che un artista inglese, John Flaxman, disegnando “from Nature” (dal vivo) i giochi di due bimbe nel sole italiano, le ritrae a piedi nudi e vestite di veli, sulla falsariga delle danzatrici dipinte a Ercolano.
Come si vede, l’antico era un filtro inevitabile, un codice linguistico accettato e universale, fondato sulla validità del modello classico. Ma quel modello non era neutrale ed univoco. Il passato poteva essere inteso come mito rassicurante e positivo, come archetipo per potersi orientare e agire sul presente, attraverso il rilancio di quelle virtù civiche e politiche che furono il canone della Rivoluzione.
Ma il passato, nell’età neoclassica, poteva essere percepito anche come fardello, per via della sua perfezione inattingibile e paralizzante.
La disperazione dell’artista davanti ai frammenti dell’antichità, immagine celeberrima disegnata da Füssli, è l’espressione di quella condizione frustrante, che una distanza infinita separa dalla grazia ellenistica di François Gérard e dalla bellezza adolescente, luminosa e spirituale che è il lascito di Antonio Canova.

Dagli affreschi di Raffaello per la Villa Farnesina alle inquietudini di Munch 

Ecco come la leggenda ha ispirato i maestri attraverso i secoli

Il mito più amato dagli artisti

Lea Mattarella

Amore e Psiche hanno attraversato tutta la storia dell’arte. Sono molti gli episodi della favola narrata da Apuleio che vengono rappresentati dai pittori e dagli scultori nel corso del tempo.
Nel Rinascimento ai due innamorati che si muovono tra la terra e l’Olimpo vengono dedicati cicli pittorici straordinari come quello che Raffaello e la sua scuola realizzano, tra il 1517 e il 1518, per La Farnesina, la villa di Agostino Chigi a Roma. Qui, in un trionfo di festoni di fiori e di frutta di ispirazione classica, sono raffigurati su finti arazzi gli episodi trionfali di questa storia d’amore piena di simboli e significati: Il concilio degli dei che acconsente alle nozze tra i due e Il banchetto degli dei in cui si festeggia Psiche, resa immortale da Giove, e unita per sempre in matrimonio ad Amore. È significativo come ciò che appare dipinto in questa celebre loggia corrisponda perfettamente alla storia narrata dall’Asino d’oro di Apuleio, come se Raffaello e compagni avessero davvero messo in scena una rappresentazione teatrale del testo. Tra nudi, danze, elmi, drappi, corone di fiori si celebra visivamente un rassicurante lieto fine.
Giulio Romano e Perin del Vaga fanno parte della pattuglia di artisti chiamati a collaborare da Raffaello. Entrambi dedicheranno alle storie di Amore e Psiche due decorazioni che finiranno per essere tra le più importanti della loro carriera. Celeberrimi sono il banchetto rustico e quello degli dei affrescati dal primo tra il 1527 e il 1530 nella Sala di Psiche di Palazzo Te a Mantova. Dove, tra l’altro, compaiono nelle lunette tutte le vicissitudini a cui la fanciulla va incontro dopo aver spiato le fattezze del suo amato: eccola tra Tristezza e Ansietà, oppure addormentata dopo essere stata investita dal sonno infernale di Proserpina, o circondata dalle formiche che la aiuteranno a dividere le diverse specie di semi secondo l’ordine ricevuto da Venere. Qualche anno dopo, nel 1545, Perin del Vaga dipinge un fregio con dieci scene da Apuleio nell’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo. Qui fa la sua apparizione gloriosa il momento forse più amato dalla pittura successiva, quello in cui Psiche guarda furtivamente Amore e lo sveglia con una goccia di olio che cade dalla lampada con cui lo illumina. Perché il pontefice avesse scelto tale ciclo è presto detto: Psiche rappresenta in questo caso il percorso che l’anima deve compiere tra le traversie e le difficoltà del mondo per arrivare a Dio, allo spirito, all’immortalità. In chiave religiosa interpreta la vicenda di Psiche anche il pittore a cui si devono le decorazioni di Palazzo Spada-Capodiferro volute dal cardinal Girolamo Capodiferro negli anni del Concilio di Trento.
Nel Settecento invece questa storia appassionante diventa un po’ il manifesto della vittoria dell’amore sulle restrizioni sociali: se il dio si è innamorato di una mortale e l’ha portata con sé nell’Olimpo significa che ci si può scegliere per affinità e non per casta. I pittori colgono anche il lato sensuale della vicenda: Jacques-Louis David raffigura una Psiche addormentata accanto a un giovane Amore dall’aria soddisfatta e un po’ sorniona. Mentre François-Edouard Picot inquadra il dio che sta per andar via dopo una notte d’amore. Guardando l’abbandono della donna si capisce come dai due sia nata una figlia come Voluttà. Tra i quadri a più alta gradazione erotica c’è sicuramente quello di Jacopo Zucchi che mostra in una specie di alcova dominata dal rosso una Psiche nuda ma ingioiellata che sveglia il suo amato: i fiori che coprono i genitali di lui sembrano alludere senza tanti preamboli al suo desiderio. Pieter Paul Rubens ne dà una versione dal forte impatto scenografico ritraendo la donna quasi persa in un paesaggio mentre accoglie l’aquila di Giove che la aiuterà a riempire il vaso con l’acqua del fiume infernale.
C’è anche chi preferisce interpretare la scena in termini malinconici come succede ad Andrea Appiani nella Villa Reale di Monza, o allo scultore Pietro Tenerani che la ritrae triste e sola come Psiche abbandonata oppure svenuta con le piccole ali di farfalla che sembrano aver perso i sensi con lei. Il disagio, la solitudine dell’uomo moderno non risparmia nemmeno Amore e Psiche. Guardate la versione di Edvard Munch: due figure che più che amarsi sembra si fronteggino, fluide, inafferrabili, ben lontane dall’abbraccio neoclassico.

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