Gilles Lipovetsky
Le leggi del desiderio
Lo studioso francese spiega perché, nonostante la crisi,
acquistare prodotti o marchi ha ancora un valore simbolico
"La Repubblica", 16 novembre 2012
Nell’Europa in preda a una crisi economica e finanziaria di lunga durata, alcuni osservatori sostengono che l’iperconsumo, e l’ascesa incessante dei desideri superflui che a esso si accompagna, sono inevitabilmente destinati a scomparire. Calo del potere d’acquisto, rischi per l’ambiente, desiderio di qualità di vita e slow life, overdose di marketing: è un consumatore “saggio”, ragionevole, frugale, quello che si annuncia, un “resistente” anticonsumo. È legittimo interrogarsi sulle chances di successo di un simile scenario.
Se è possibile o probabile immaginare la fine di un’economia fondata sulle energie non rinnovabili e inquinanti, lo stesso non si può dire per la febbre consumistica. In realtà, le inevitabili trasformazioni che si annunciano (risparmio d’energia, energie pulite, riduzione delle emissioni di anidride carbonica, riciclaggio, ecoconsumo) non significano in alcun modo un superamento della civiltà iperconsumista identificata con la mercificazione quasi assoluta dei modi di vivere.
Sicuramente si stanno evolvendo modalità di consumo che iniziano a tener conto delle esigenze dell’ambiente, ma tutto questo non farà emergere una cultura della “semplicità volontaria”. Le persone smetteranno di desiderare le novità commerciali, di andare a caccia di musiche inedite, di viaggiare ai quattro angoli del mondo, di andare al concerto e al ristorante, di visitare i parchi di divertimenti, di divorare gli ultimi film e videogiochi? È evidente che non succederà.
Lo scenario che si annuncia è che avremo un maggior numero di prodotti che consumano poca energia, ma un consumo sempre più forte di servizi, cure e prodotti culturali.
Nulla arresterà la smodata inclinazione dei consumatori per le novità, e questo perché si tratta di una tendenza che affonda le radici in fenomeni strutturali come la “detradizionalizzazione” delle culture, il culto dei godimenti materiali, l’avvento di economie fondate sull’innovazione perpetua. Questi processi ci condannano a vivere in società caratterizzate dall’amore per il cambiamento in sé e per sé. Non si tratta di una moda effimera, né di un puro effetto di manipolazione pubblicitaria, ma di una logica connaturata alle società nomadi e globali che hanno eliminato la tradizione, intesa come eredità di una storia.
Che cosa vediamo allora? La passione per i viaggi, per le serie televisive, per i gadget tecnologici di moda, per musiche e cucine nuove, per l’arredamento della casa, sono tutti in piena espansione. E mentre cresce l’isolamento delle persone e il malessere soggettivo, i consumi funzionano come un mezzo di consolazione, come una forma di terapia, un modo per dimenticare quello che ci frustra, ci ferisce, ci angoscia. Nelle società iperindividualiste centrate sulla ricerca della felicità privata, è diventato insopportabile non “farsi piacere” attraverso esperienze rinnovate. Tutto contribuisce ad amplificare la smania di acquistare.
D’altra parte, come ho scritto altre volte, sappiamo tutti che le grandi utopie e la controcultura sono evaporate. E quel modello di sopravvalutazione del futuro ha ceduto il passo a un superinvestimento sul presente. La cultura che caratterizza la nostra epoca iper-moderna non è più un insieme di norme che ci vengono dal passato (cultura in senso antropologico), né il “piccolo mondo” delle arti e delle lettere (la cosiddetta cultura alta), ma un settore in piena espansione, tanto che può essere definito come una sorta di “capitalismo culturale”. Lo definiamo così perché diventa non una semplice produzione di oggetti o di modelli razionali e materiali, ma un vero e proprio mondo di simboli, di significanti e di un immaginario sociale planetario.
In questo senso anche il desiderio che proviamo per i marchi non mostra segnali di declino. Ne è la prova la Applemania, lo sviluppo spettacolare del mercato mondiale del lusso, il successo dei grandi brand automobilistici tedeschi, i fan club, l’ossessione degli adolescenti per i loghi. Il gusto dei marchi si generalizza abbracciando ogni cosa, perché rassicurano l’iperconsumatore scombussolato, perso in questa super-offerta commerciale ed estetica. In una società alleggerita delle grandi utopie collettive, i marchi assolvono a una funzione ineliminabile: sono sogni, offrono punti di riferimento, sicurezza; e sono anche strumenti di autovalorizzazione per consumatori ormai slegati dalle antiche forme di appartenenza collettiva.
In queste condizioni, il tropismo consumista ha ancora un grande avvenire davanti a sé. Certo è innegabile che in Europa le spese “incomprimibili” delle famiglie sono fortemente aumentate: fra il 2001 e il 2006 in Francia sono passate dal 50 al 70 per cento per le famiglie a più basso reddito. L’incremento di queste spese obbligatorie ha spinto molte famiglie a comprare prodotti meno cari, fare baratti, cercare prodotti gratuiti o in promozione, aspettare i saldi, consumare meno.
Detto questo, il calo del potere d’acquisto non significa una regressione dei desideri consumistici. Nelle nostre società edonistiche e ipercommerciali, anche i più poveri sono degli iperconsumatori “nella testa e nei desideri”, e questo nonostante debbano fare sempre più economie e modificare i loro comportamenti d’acquisto. Da un lato probabilmente le difficili condizioni economiche imporranno una certa moderazione, condannando diverse categorie di popolazione a imporsi delle privazioni, ma dall’altro, la cultura dei piaceri e delle novità connaturata alla civiltà consumistica è più viva e vegeta che mai.
(traduzione di Fabio Galimberti)
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