martedì 6 novembre 2012

Dall’umanesimo al “rinuncianesimo”


Una replica dello scrittore all’intervento di Lodoli sulle difficoltà degli insegnanti

Andrea Bajani

"La Repubblica", 5 novembre 2012

Ho il sospetto che sia tutto cominciato quando i genitori, gli zii e i nonni hanno cominciato a parlare di babysitteraggio per intendere il tempo da destinare ai loro stessi figli. Invece di “passare il tempo con”, di “prendersi cura di”, e dunque di mettere in gioco la genetica, gli affetti e quel po’ di cultura pedagogica che arriva dai libri e dalla vita, di colpo si è cominciato a indossare panni da professionisti a libro paga. Tutte le volte che ho sentito dire “oggi serata babysitter”, ho pensato con un po’ di sconforto a quel soggiorno dove tutto si sarebbe consumato, con i più piccoli a chiedere attenzioni e i più grandi a pensare a procedure. Soprattutto, dentro quella frase – pronunciata per lo più per osmosi culturale – non riesco a non vederci una sorta di scacco, quando non di resa: gli adulti che dichiarano che tutto quello che sapevano, che applicavano d’istinto, ormai non serve più. Perché il mondo è cambiato, e noi oggi stiamo nella nostra parte di soggiorno a guardare le schiene dei nostri ragazzi sciogliersi come pastiglie effervescenti nel computer. Stiamo nella nostra parte di aula, dietro la cattedra, di fronte a facce che ci guardano senza vederci, che ci trapassano infilzandoci al passato. La sindrome (e il dramma) dell’invisibilità degli insegnanti, di cui racconta Marco Lodoli nel suo intervento La fine dell’umanesimo, pubblicato su questo giornale il 31 ottobre scorso, in parte la conosco perché in parte la vivo. Conosco lo sconforto di alcuni insegnanti (non di tutti), gli sfoghi sugli occhi dei ragazzi come buchi neri in cui finiscono risucchiati anni di apprendistato e di esperienza al timone della classe. Lo conosco perché sono anni che lavoro con gli insegnanti e i ragazzi nelle scuole superiori, del centro e delle periferie. Entro nelle classi in maniera impropria, non come insegnante ma come scrittore. Faccio irruzione senza registro, il che semplifica e complica le cose al tempo stesso: spazza via la routine in nome dell’eccezionalità, e però contemporaneamente rende inservibile l’esercizio tradizionale dell’autorità di cui proprio il registro è da sempre mezzo e simbolo. Io ho come strumento unico il linguaggio. Sono le parole quelle di cui mi servo: le rovescio sulla cattedra e insieme costruiamo e disfiamo mondi, le montiamo, proviamo a vedere come suonano battute con i mezzi che abbiamo tra le mani. Proviamo a riabilitarle quando sono state abbandonate, cerchiamo di sentirne la ricchezza, il potere, la violenza, ci chiniamo su di loro come ci si china sopra un mappamondo.
Lo scorso anno, per il Salone del Libro di Torino, abbiamo inventato parole nuove per indicare fenomeni che secondo loro non avevano ancora un nome. I ragazzi alzavano la mano, e mi proponevano temi e parole. Ce n’è stata una che mi ha colpito più di altre, proposta da una ragazza di un istituto professionale. Era la parola Rinuncianesimo, una religione del non fare, che dagli adulti ricadeva su di loro. Si trattava, cercava di spiegarmi, di una tendenza diffusa tra i grandi – e per conseguenza tra di loro – a pensare che nessuno sforzo li avrebbe tirati fuori da un presente paludoso. In quella parola proposta da una ragazza di 16 anni, nella parola Rinuncianesimo, c’era l’allarme di una generazione che agli adulti chiede di fare gli adulti. Di assumersi la responsabilità, e la fatica, di farlo. Di costruire, quando forse è più veloce buttare tutto a mare. Ci chiede di non liberarci di tutti gli strumenti con cui nel passato abbiamo provato a costruire il futuro – l’umanesimo, il marxismo, etc – ma di trovare un linguaggio per farli arrivare fino a loro. Troppo comodo buttare l’umanesimo. Poi decideranno loro come usarli, se considerarli buoni, vintage o soltanto vecchi. Perché forse, pensavo mentre leggevo l’articolo, hanno ancora bisogno di madri, padri e nonni, che facciano le madri i padri i nonni, e non di babysitter che li guardano perplessi. E hanno bisogno di insegnanti – e ce ne sono tantissimi, di questo tipo, per fortuna – che facciano quel che possono, con gli strumenti che hanno e quelli che s’inventano, per aprirgli una finestra sul futuro, e non di studentsitter, che girano per la classe guardandogli le spalle, e crogiolandosi nel loro dorato e inservibile passato.

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