venerdì 2 novembre 2012

Se tutti dicono “Ave Cesare”


Il libro di Warner spiega il periodo imperiale

Lucio Villari

"La Repubblica", 1 novembre 2012

C’è una attualità di Cesare che in Europa coincide esattamente con il sorgere, nel clima filosofico del Rinascimento, del pensiero politico moderno e con la necessità di precisare la forma moderna dello Stato, monarchico o repubblicano, come specifica istituzione giuridica e civile autonoma rispetto ai due poteri egemoni, l’Impero e la Chiesa. In Italia in particolare l’immagine di Cesare trasmessa fino allora dai cronisti e storici latini (soltanto a metà del XV secolo, grazie agli umanisti, si ha la certezza scientifica della paternità di gran parte dei suoi scritti) serviva a identificare un potere politico e militare originale che avrebbe potuto funzionare da punto di riferimento in una possibile, comune difesa militare dell’Italia dagli stranieri invasori e come deterrente di prepotenti poteri interni.
Con Napoleone e poi con il “cesarismo” e con l’insidioso bonapartismo il potere di Cesare fu descritto come autorevole perché legittimato delle magistrature di cui era stato ripetutamente investito (dal consolato alla dittatura); autoritario perché capace di battersi alla pari, quando era necessario, con il potere massimo della Repubblica, il Senato; sicuro di sé perché fondato sul consenso popolare; orgoglioso della storia personale e pubblica di cui era stato anche l’unico narratore. Infatti la figura di Cesare scrittore “popolare”, efficace nel linguaggio e nello stile, perfeziona l’altra figura più specificamente politica e istituzionale da far dire di recente, a qualche storico del mondo antico, che la sua assunzione di tutti i poteri, culminati nel 45 nella dittatura perpetua, sia stata in realtà una “dittatura democratica”.
Questa definizione è, tra le tante, la più discutibile. Tale sarebbe apparsa, ad esempio, a Machiavelli che lo cita appena nel Principe mentre nei Discorsi ne attribuisce la fama soprattutto alla storiografia di regime («Né sia alcuno che si inganni per la gloria di Cesare, sentendolo massime celebrare dagli scrittori: perché quelli che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza del suo imperio, il quale non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui»). Comunque, per almeno cinquecento anni Cesare ha avuto emuli e ammiratori. Dal duca di Valentino («Aut Caesar aut nihil») a Napoleone che a Sant’Elena dedicò a Cesare un libro pensando in fondo a se stesso («L’autorità di Cesare era legittima, perché necessaria e protettrice, perché tutelava tutti gli interessi di Roma in quanto era l’effetto dell’opinione e volontà del popolo»), a Napoleone III con il suo “impero liberale” nato dalle urne elettorali. Machiavelli, Guicciardini, Bodin, Botero, Montaigne, Naudé (teorico dei colpi di Stato), Shakespeare, Montesquieu (l’elenco si allunga fino ai nostri tempi), in modo diretto o per allusioni, hanno sempre tenuto conto di Cesare e del modello di potere militare-popolare comprendente guerre civili e decisivi colpi di Stato (uno di questi fu certamente il passaggio del Rubicone) fino alla minaccia ai fondamenti storici repubblicani, cioè liberi, di Roma.
Questa premessa è per dire dello studioso del mondo classico greco e latino, Rex Warner, traduttore di Cesare e autore di romanzi di rilievo che nel 1958 ha dedicato a Cesare un dittico dove il protagonista racconta di sé in prima persona. Cosa che il Cesare vero fece ostentatamente in terza persona. Il risultato è una “autobiografia” inventata ma verosimile: Il giovane Cesare e Cesare imperiale. I due libri sono stati tradotti quest’anno in italiano dall’editore Castelvecchi. 

Cesare imperiale (traduzione di Elisabetta Stefanini, pagg. 377, euro 17,50) è il racconto storico, il “romanzo” di avventure reali e di una vita vissuta non solo nell’azione ma anche pensata mentre si svolgeva. È grazie a questo pensare le cose oltre che a farle che l’autobiografia finta dà ad esse più autenticità. “Cesare-Warner” pensa politicamente e commenta le sue gesta addirittura sino alla serena vigilia delle idi di marzo. Una morte prevista, quasi attesa (Montaigne annotò con ammirazione il tranquillo andare al suo destino di Cesare) che naturalmente Warner non può raccontare ma che il suo inventato “Cesare-Warner” prevede lucidamente con una riflessione politica quanto mai “cesarea” e orgogliosa che conferma il permanere del complicato giudizio storico su di lui. «Se venissi assassinato oggi stesso, il popolo, dopo i primi momenti di smarrimento, si rivolterebbe contro i miei assassini e inizierebbe a venerarmi come un dio, in modo molto più sentito di adesso. Ma nonostante conosca bene la concretezza del potere e la sostanziale inconsistenza di gran parte degli onori che ho ricevuto, continuo a non sopportare la disonestà intellettuale e quella specie di legalismo moraleggiante e incivile che per tutta la vita ho visto adottare come pretesto per ciechi interessi personali e come giustificazione per ogni tipo di sopraffazione e di atrocità». A chi pensava Warner- Cesare nel 1958?
Infine, il raccontare prende nell’ultima pagina il sopravvento. 
«Spunta l’alba delle Idi di marzo... Il forte vento è calato, ed è giusto, considerando che è il primo giorno di primavera. Non è il momento di pensare alla morte, come stavo facendo, perché la terra si sta aprendo alla vita... Mi scorrono davanti agli occhi con estrema chiarezza molti momenti di pericolo, di trionfo, d’amore e di soddisfazione... Oggi ho una seduta al senato in una nelle sale attigue al teatro di Pompeo».

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