venerdì 30 novembre 2012

Il filosofo che volle educare il tiranno


Platone cercò interlocutori a Siracusa per realizzare il suo ideale autoritario

Luciano Canfora

"Corriere della Sera ", 29 novembre 2012

Discendente dalla più antica e illustre nobiltà ateniese, Platone ha sentito sin dal principio l'attrazione della politica. Ha avuto la ventura di vivere una serie di esperienze straordinarie e traumatiche: i Trenta Tiranni — il cui capo era un suo congiunto —, la restaurazione democratica, la dispersione dei socratici, la grandezza e la miseria della tirannide siciliana, l'irretimento nelle beghe della corte siracusana, la delusione, il ritiro nella scuola. Ha idoleggiato una società comunistica e profondamente «interventista» nella vita di ogni singolo come unica via per la realizzazione non individualistica, ma collettiva del «sommo bene»; ma una tale società non ha saputo concepirla che come rigidamente castale e autoritaria; attratto, come già Crizia, da un modello che, per quanto gli appaia col tempo sempre più insoddisfacente, deludente e caduco, è pur sempre presente alla sua coscienza: quello della Sparta egualitaria, povera, virtuosa, delle leggi di Licurgo.
Assumendo i «tiranni» di Siracusa come interlocutori del suo esperimento di «monarchi-filosofi», Platone adotta un punto di vista che potremmo definire «hobbesiano»: quello della indistinguibilità tra monarca e tiranno (se non in ragione delle azioni compiute), e il rifiuto, per converso, della usuale loro distinzione basata sul giudizio soggettivo di sostenitori e avversari. (Non è inutile ricordare che proprio dalla considerazione della tirannide greca — e ateniese in particolare — Hobbes era per la prima volta approdato, nell'introduzione a Tucidide, 1629, a quella formulazione dell'inconsistenza del concetto di per sé negativo di «tirannide» che affiderà più tardi al De Cive).
Questo atteggiamento dovette essere comune anche ad altri socratici, e discende, forse, dall'atteggiamento radicalmente critico dello stesso Socrate — il quale non a caso restò in Atene durante il governo dei Trenta — nei confronti di tutte le forme politiche tradizionali.
Un socratico non trascurabile, quale Senofonte, svilupperà nello Ierone il tema della «infelicità» del tiranno. Ma Platone andrà oltre. Col suo esperimento siracusano, egli si è aperto, nella prassi, ad una empirica intesa con i tiranni. È stata una scelta di realismo politico che di solito resta in ombra, quando si parla di Platone, collocato, di norma, agli antipodi del realismo o addirittura della Realpolitik.
Non sarà forse mai del tutto esaustivo lo sforzo volto a scandagliare le molte facce di questo genere di scelte: il misto di fascinazione del potere (e della persona che eventualmente lo incarni); di illusione o ragionevole convinzione di riuscire ad incidere in dinamiche e meccanismi che, lasciati a se stessi, sarebbero, forse, di gran lunga peggiori; di certezza che una testimonianza resa fino alle estreme conseguenze può rendere frutti a distanza di tempo (a futura memoria); di fatalismo per non saper più «uscirne»; di effettiva commistione di comportamenti tra il politico e il filosofo, che si produce comunque, anche nel loro confliggere. E siamo certi che questa casistica è del tutto incompleta: non rende appieno la ricchezza di possibilità che il difficile intreccio comporta o suscita.
Il moderno fautore del Principe, che teorizzò la necessità di affidare l'educazione ad un ideal-tipico Chirone perché mezzo uomo e mezzo bestia, fu, al tempo stesso, uomo di azione che dalla diretta esperienza della politica uscì schiacciato. E tuttavia egli è riuscito a ripensare quell'esperienza con un distacco tale da finire coll'apparire ai lettori — specie a quelli non benevoli, ma non per questo impertinenti — addirittura come il «cantore» dei metodi di governo del Duca Valentino. Né risolse l'evidente aporia la gramsciana intuizione di spostare su di un soggetto collettivo, la forza, il ruolo e le prerogative del «moderno principe».
È probabilmente illusorio il proposito di conciliazione o di ricomposizione tra morale individuale e morale politica. Ed è difficile sostenere che le esperienze risolutive non siano state ancora fatte, che il ritrovato risolutivo non sia stato ancora escogitato. Al contrario, la vastità e la ripetitività delle esperienze che abbiamo alle spalle, e che la superstite Historia rerum gestarum ci documenta, è tale da indurre piuttosto a ritenere che quel ritrovato non esista. Al punto che la medesima persona, ove per avventura trapassi da intellettuale a politico — raro ma non impossibile scambio di ruoli — cambia anche morale.
Libero resta, invece, il tipo di fuoruscita individuale, quando si sia approdati ad una situazione che appare ormai insostenibile. Seneca ha lasciato alle età successive, oltre che l'esempio della grandezza e miseria di un esperimento fallito, anche la ricetta, tipica dell'aristocrazia stoicheggiante romana, per chiudere sul piano individuale la partita: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo» (De Ira, III, 15, 4).
La politica è arte troppo grande e troppo rischiosa, già per il fatto che grazie ad essa alcuni divengono arbitri del destino di tutti gli altri, per non comportare, per chi vi si cimenta da protagonista, prezzi altissimi. Come ben sapeva il Socrate platonico, è l'unica arte che non dispone di canoni «insegnabili», e che tuttavia qualcuno, necessariamente, deve praticare. Anche il tiranno è dunque vittima, e talora vittima sacrificale. A ben vedere, è talmente «ovvio» che la morale da lui praticata sia diversa da quella individuale (e non per sua libera scelta malefica), che, a distanza di tempo, sorge talora, tra i molti, pungente nostalgia di lui: consapevoli tutti, è da pensare, che egli fosse, per così dire, costretto ad una morale diversa. Donde il sorgere, ad esempio, dopo la morte di Nerone, di «falsi Neroni» ritornanti nel tempo nella fantasia collettiva, pur dopo la fine fisica di quel determinato principe che portò quel nome e che morì esecrato. Fenomeno destinato a coesistere con l'altro, complementare e indissolubile dal primo, dell'alta stima, anche da parte dei critici più acerbi, nei confronti della «via alla libertà» che Seneca, quando lo ritenne doveroso, seppe praticare.

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