lunedì 5 novembre 2012

Senza grammatica che lingua è?



Roberto I. Zanini intervista  Maria Luisa Altieri Biagi

"L'Avvenire", 30 ottobre 2012

​Evviva la grammatica. Ma che sia spiegata partendo dalla lettura di ottimi autori e dalla comprensione dei loro testi, «perché chi ascolta o legge può osservare come questa grammatica agisce, come dà forma alle parole, come le mette in fila, come le collega fra loro. Può capire come sono fatti i testi, in rapporto a ciò che dicono e alle situazioni comunicative in cui sono stati prodotti; può giungere a scoprirne i dettagli, le sfumature... Se qualcuno mi chiedesse come imparare piacevolmente un uso corretto del congiuntivo, risponderei: leggendo Dino Buzzati, Primo Levi, Italo Calvino». Maria Luisa Altieri Biagi, linguista, membro dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia delle Scienze di Bologna affronterà questo tema il 4 novembre al Festival della Scienza di Genova. Per lei la parola chiave per chi vuole imparare a esprimersi con efficacia in Italiano è «semplicità». E «semplice», come tiene a sottolineare lei stessa, è il suo ultimo libro (Rosenberg & Sellier, pp 115), che "semplicemente" si intitola Parola.

Insomma, scrive bene chi scrive semplice?
«Se devo scrivere per farmi capire, per comunicare, devo usare un italiano semplice. L’uso di parole semplici e di una sintassi lineare garantisce la comprensibilità e la bellezza del testo. L’esatto contrario del "burocratese", che è una lingua complessa e assurda, difficilmente comprensibile. Guido Ceronetti la definiva la lingua dell’"imbecille onnipotente"».

Nel comune modo di scrivere c’è più complicazione o più trascuratezza?
«Entrambe le cose. Ma soprattutto complicazione sintattica. È inutile usare "periodesse" di venti righe. Meglio scrivere frasi semplici e brevi, pur senza esagerare. Ma queste cose s’imparano. La complessità di certi testi deriva dall’incapacità di dominare la sintassi».

Come la mettiamo con chi denuncia un uso sempre più povero della lingua italiana?
«La ricchezza della lingua scritta sta nella varietà delle parole e nella precisione della loro scelta. Ma la complicazione è sempre un danno. Tanto più che la scarsa chiarezza rivela poca padronanza della materia e poca lucidità di analisi».

Ci si domanda se la bella lingua italiana sopravviverà.
«La lingua si salva evolvendo. Siamo in tanti a denunciare l’abuso di una lingua raffazzonata, approssimativa, burocratica, insulsa. A un certo punto si diffonderà il disgusto per questo modo di scrivere e di parlare. In quest’ottica i professori dovrebbero insegnare la cura delle parole, insistere sull’esercizio della scrittura e sull’analisi linguistica dei testi. Nelle Università arrivano studenti che non sanno scrivere perché non hanno fatto esercizio di scrittura. Sarebbe utile che tutte le facoltà prevedessero un corso di lingua italiana».

Si può dire che la lingua va allenata come in palestra?
«E c’è bisogno di molto allenamento».

Oggi qual è il metodo migliore?
«Resta sempre la lettura. È la grande maestra della lingua. Bisogna leggere buoni autori se si vuole imparare a scrivere con semplicità ed efficacia».

Chi consiglia fra i contemporanei?
«Io dico Buzzati e Calvino. Sono i miei preferiti come modelli di stile. La loro lingua ha una struttura elegante, è semplice, immediata. La loro sintassi è pulita. La scelta delle parole è precisa e questa scelta non è cosa facile. Tanti scrittori contemporanei usano parole... sfocate, nel senso che non mettono a fuoco il concetto che intendono esprimere. Una persona che sa scrivere usa parole che dicono nitidamente quel che si vuole comunicare».

In questa logica chi è il più grande scrittore italiano?
«Senza dubbio Galileo. Lo sosteneva anche Calvino. Perché i suoi testi, nonostante siano stati scritti nel ’600, sono chiari. La sua sintassi, anche quando usa frasi complesse, è un’architettura perfetta. La lettura di Galileo fa comprendere che la semplicità nella scrittura non vuol dire fragilità, ma lucidità, solidità ed efficacia architettonica». 

Nel libro ha più volte citato Calvino, anche con esempi di come in Marcovaldo abbia usato il congiuntivo... qualche volta, però, non convincono.
«In effetti ha ragione. Calvino fa un uso del congiuntivo abbastanza personale. E in realtà la grammatica stessa prevede situazioni in cui non è obbligatorio, ammettendo la scelta dell’indicativo. Riguardo all’uso del congiuntivo, spesso ci sono esagerazioni. Non è il purismo a fare la buona scrittura, ma nemmeno il lassismo. Per questo dico che la lettura attenta di buoni autori è la migliore maestra».

Sempre in Parola, lei sostiene che parliamo già "europeo" senza accorgercene.
«Ci sono tanti francesismi o anglicismi, anche di recente introduzione, che usiamo comunemente senza esserne consapevoli. Questo vale anche per le altre lingue europee, cominciando dalla quantità di parole assunte dal latino e dal greco antico. La verità è che stiamo andando verso forme di crescente omogeneità linguistica. E il processo è più spontaneo di quanto si supponga. Nel ’700 Lazzaro Spallanzani ha bisogno di un traduttore francese per far circolare in Europa i suoi testi. A un certo punto, lo dice lui stesso in una lettera, modifica la sua scrittura italiana per facilitare la traduzione nelle costruzioni sintattiche francesi. È così che un po’ alla volta potrebbe formarsi una lingua europea».

1 commento:

  1. Bellissimo articolo, condivido in pieno...ma spero davvero che non si arrivi alla lingua europea, che perdita enorme sarebbe! Ogni lingua svela un universo, per questo la traduzione è l'arte dell'impossibile. Ed è giusto che sia così.

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