giovedì 15 novembre 2012

Rivolta e repressione. La vera storia di Bronte


Un libro di Lucy Riall propone nuove ipotesi sul controverso episodio del 1860

Simonetta Fiori

"La Repubblica", 14 novembre 2012

E se scoprissimo che non è vero nulla? Se accertassimo che tutta la sterminata letteratura scaturita sulla rivolta di Bronte – da destra e da sinistra, da nostalgici borbonici e da progressisti illuminati, da separatisti del Nord e da paladini del Meridionalismo, da registi come Florestano Vancini fino alle penne insindacabili di Carlo Levi e di Leonardo Sciascia – se questo impetuoso fiume di inchiostro su uno dei luoghi-simbolo della tormentata vicenda nazionale fosse alimentato per gran parte da miti e stereotipi infondati? È quello che cerca di dirci con il consueto acume una storica inglese non nuova al nostro Risorgimento, Lucy Riall, studiosa di Garibaldi e meticolosa demolitrice di vulgate italiche, specie di quelle che si spacciano per “controstoria” contro “i truffaldini silenzi” delle narrazioni canoniche. Controstorie – va detto anche questo – che in Italia riscuotono grandissimo successo. Come è capitato ai bestseller di Pino Aprile, applauditi nello stesso paese pavesato col tricolore per il centocinquantesimo dell’unità nazionale.
Che cosa accadde realmente nella cittadina etnea è raccontato nel nuovo libro della Riall
La rivolta. Bronte 1860, documentata ricostruzione dell’orgia di terrore che ebbe luogo sulle pendici del vulcano quando Garibaldi conquistava la Sicilia (Laterza, pagg. 354, euro 20). Sei giorni di ferocia e distruzione, cominciati nella notte del primo agosto del 1860. Mille insorti e fiamme ovunque.
Proprietari terrieri torturati e uccisi. Anche fegati estratti dai cadaveri e forse mangiati (ma il cannibalismo non fu mai confermato). E, come sintetizzò un contemporaneo, «Nerone nell’incendio di Roma non poteva fare peggio ». La ribellione durò quasi una settimana ma la sua fama resistette molto più a lungo. Anche perché provvide il generale Bixio – garibaldino devoto al leader biancocrinito – a stroncare con severità i rivoltosi: più di ottanta gli arresti, e cinque le condanne a morte. Per un secolo e mezzo Bronte è destinata a rappresentare «l’atto di morte della promessa unificazione nazionale», una sorta di “perdita dell’innocenza” per la causa democratica, «luogo simbolo del tradimento delle plebi meridionali». L’immagine più consolidata della rivolta brontese – quella che più ha resistito nella memoria pubblica – è che essa scaturì dalla lotta tra la comunità locale, desiderosa di distribuire le terre ai contadini, e la ducea inglese, paladina degli interessi feudali dei maggiori proprietari terrieri. E fu proprio per difendere il patrimonio britannico – e i privilegi dei latifondisti – che Nino Bixio scatenò la brutale repressione.
Fu realmente così? Per dimostrare l’infondatezza di questa vulgata Lucy Riall è andata a scavare nella storia della città di Bronte e negli archivi della famiglia Nelson, destinataria della Ducea donata nel 1799 da re Ferdinando all’ammiraglio inglese. Le carte raccontano una vicenda un po’ più complicata rispetto alla favola corrente, non assolutoria nei confronti degli inglesi – mossi fin da principio da spocchiosa arroganza verso la comunità locale e sempre ostili alle rivendicazioni contadine – ma certo più attenta alla persistente e feroce lotta interna all’élite cittadina. In sostanza, nella rivolta del 1860 gli inglesi non furono il bersaglio ma piuttosto gli spettatori, e i loro possedimenti non furono preda dei contadini. Il vero obiettivo delle violenze furono notai, contabili, esattori di canoni d’affitto, proprietari terrieri di Bronte, ossia quel potere cittadino che, pur dichiarandosi liberale, alleato di Garibaldi e favorevole alle terre per tutti, in realtà tutelava esclusivamente il proprio interesse patrimoniale e le proprie ambizioni di potere. E il ceto contadino – in questa ricostruzione proposta da Riall – figura tutt’altro che sprovveduto, ma ben consapevole fin dal 1848 del cuore del problema. E cioè che l’amministrazione di Bronte aveva acquisito in nome dei più umili la proprietà terriera, ma la sfruttava esclusivamente a suo vantaggio.
Quanto alla violenta reazione di Nino Bixio, anche questa volta la Riall suggerisce un’interpretazione controcorrente. No, non giustifica la repressione, ma esplora il contesto in cui maturò, per arrivare alla conclusione che in fondo non c’erano molte alternative. Bronte fu in sostanza una tragedia, ma la colpa di quel che avvenne non fu né del severo garibaldino né degli algidi britannici, ma è attribuibile a una lunga storia di corruzione, di miseria, di sfruttamento, di frustrazioni, di guerre tra famiglie, di lotte per il potere sulle terre, antiche lacerazioni per la massima parte interne alla comunità brontese. E per mettere fine alle lamentele sul Risorgimento incompiuto, basta alzare la testa dall’Italia per osservare il mondo. Forse che il processo di costruzione nazionale fu meno violento e doloroso negli Stati Uniti o in America Latina, in Spagna o in Germania, o in parti della Francia e delle Isole Britanniche? Viste da una prospettiva più ampia – sembra suggerirci Riall – le travagliate vicende italiane non dovrebbero più sorprenderci.

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