Ferruccio de Bortoli
"La Lettura - Corriere della Sera", 11 novembre 2012
Leggevo, e non potrei cominciare questo articolo con un verbo diverso, che quella degli hikikomori, giovani giapponesi che si chiudono in una stanza e decidono di non uscirne più, è la patologia più insidiosa della multimedialità. Non la sola e non limitata a Tokyo e dintorni. La Rete, il computer, i videogiochi, il resto non esiste per questi nuovi reclusi sociali, la cui esistenza si annulla in uno scorrere insistente di immagini che comprime personalità fragili nell’involucro di avatar anonimi. «Il mio corpo andava sempre più indebolendosi e deformandosi — racconta il protagonista de Il Banco vuoto di Antonio Piotti (Franco Angeli) — fino a espandersi in una massa grassa e sporca, ignobile caricatura di ciò che avrei voluto essere». Non sono stati gli psicofarmaci la cura, no, bensì la presenza rassicurante di medici, genitori e amici, capaci di restituire senso alle parole e significato ai sentimenti. Il respiro intenso di una buona lettura, lo sguardo interiore sia sul mondo del teatro sia su quello della musica. Il sapore anche amaro della realtà contro il dolciastro zucchero filato di una vita artefatta intrappolata nella Rete.
Quando, un anno fa, lanciammo «la Lettura», mi capitò tra le mani un libretto di Giuseppe Pontiggia — Leggere (Lucini editore) — illuminante, come lo sono del resto i testi dell’indimenticato Peppo. L’autore raccontava di aver partecipato a un convegno dal titolo «Il tempo e il libro», scoprendo soltanto all’ultimo di essersi preparato, vittima delle assonanze e della distrazione, su un altro tema: «Il tempo libero». Non così distante, però. L’etimologia non giustificava la sovrapposizione fra «libro» e «libero», ma la convergenza era irresistibile, mediata da una terza parola: «tempo». Pontiggia non buttò via la sua relazione. La adattò insistendo sul legame indissolubile fra libro e libertà, citando Seneca che, nelle Lettere a Lucilio, parla del tempo come dell’unico bene che ci appartiene veramente. E il tempo che dedichiamo alla lettura è forse, nello spazio di una giornata, lo squarcio di libertà di cui siamo unici titolari. Non lo condividiamo con nessuno, ma lo facciamo idealmente insieme agli altri, come accadeva nell’antica Grecia, quando un testo veniva letto ad alta voce. «Dobbiamo difendere — scriveva Pontiggia — la lettura come esperienza che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi alterni della mente». Sono parole straordinarie che descrivono, meglio di tante altre, la bellezza del leggere, l’attività umana più inebriante e ricca. Forse la più sedentaria, ma quella nella quale la mente corre con il coraggio di un eroe mitologico o la temerarietà di Baumgartner che supera il muro del suono in caduta libera. La lettura richiede impegno, sacrificio, costanza, ma non va vissuta come una costrizione o un obbligo. Se un testo non piace lo si può abbandonare senza colpa. Non salva nessuno, non redime nessuno, ma ci dà l’emozione di viaggiare nel tempo, di essere contemporaneamente in più luoghi. Ammette le distrazioni, la poligamia letteraria. Perdona i tradimenti quando abbiamo voglia di passare da un autore all’altro o da un genere all’altro per riposarci, ritemprarci, divertirci. Ma soprattutto ci fa uscire dall’anonimato e dalla massa, dai recinti dei nuovi reclusi, dalle solitudini di un mondo interconnesso, ma composto da molecole che non comunicano tra loro. Non importa il mezzo, il libro o il giornale di carta, il web o l’e-reader. Conta lo spirito. Contiamo noi, come individui e le collettività che rappresentiamo. La lettura misura il nostro grado di civiltà. Nel discorso preliminare all’Enciclopedia, d’Alembert scriveva che «le idee che si acquistano con la lettura (…) sono il germe di quasi tutte le scoperte, è come aria viva che si respira senza accorgersene, e che è necessaria per la vita». E il ragazzo del Banco vuoto non potrà che convenirne.
In un simpatico volumetto dal titolo Libroterapia (Salani), più adatto a un prontuario farmaceutico che a un catalogo editoriale, Miro Silvera spiega con maestria come la lettura possa curare l’anima. In una delle tante immagini, c’è un Tiziano Terzani, rigorosamente vestito di bianco, intento a leggere nel salotto della sua casa, presumo a Orsigna, in Toscana. Terzani aveva bisogno di silenzio per leggere, faticava a trovare la concentrazione. Gli ambienti affollati lo disturbavano. Ricordo un colloquio con lui in un locale milanese che aveva prenotato lasciandosi ingannare dall’insegna orientale, salvo poi scoprire con disappunto che tutto era falso, a cominciare dal tè. Vero, maledettamente vero solo il brusio, il rumore scomposto degli avventori. «Come potrai mai concentrarti o leggere in un simile caos?», mi chiese. «Ci riesco benissimo, sono abituato». «Io proprio no». Il Terzani terapeutico, ricordato da Silvera, è quello di Un altro giro di giostra (Longanesi), in cui parla della malattia e della bellezza senza tempo della lettura solitaria nel suo eremo, dal quale comunicava con il mondo attraverso il nickname Nemo Nessuni. Il medico migliore è dentro di noi, forse non farà guarire il tuo fisico, ma libererà la tua mente, dandoti la sottile ebbrezza dell’immortalità. Tiziano mi regalò un piccolo fossile che mi è stato purtroppo rubato. Disse: «Lo devi stringere nel tuo pugno e pensare che non vi sia alcuna differenza fra te e lui». Al ladro non ho potuto trasmettere le istruzioni di Tiziano.
La lettura può far bene. Giusto. E anche molto male. Una medicina sbagliata o in dosi errate uccide il paziente. La lettura senza selezione e prudenza, tipica dello sfoglio disordinato e bulimico della Rete, può generare false credenze, alimentare miti pericolosi, cementare gli odii peggiori. Si dirà che accade anche con i libri. È vero e a lungo si è discusso se fosse giusto o no pubblicare tutto, anche il Mein Kampf di Hitler o i falsi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Nell’era della multimedialità e del facile accesso a testi di consultazione aperta, il problema non si pone: tutto circola, in un modo o nell’altro. Resta il tema della libertà consapevole del lettore che mai deve essere ridotto a un automa dalla facile e acritica indigestione di testi, falsi e semilavorati di impronta violenta, razzista e antisemita. La Rete ne è ingombra. Il rischio non solo esiste, è addirittura ingigantito. Il lettore può essere affascinato e traviato dai libri, come madame Bovary, ossessionato e rapito come don Chisciotte: è un’osservazione che fa Corrado Augias nel suo Leggere (Mondadori). Il lettore ha i suoi amori, le sue preferenze e le sue manie. Ma resta intimamente se stesso. Quando viene posseduto da testi con verità manipolate, falsi clamorosi, intrisi di violenza e odii, è prigioniero obnubilato. Un recluso della peggiore letteratura o della meno consigliabile saggistica. Un alieno che ha perduto senso della realtà e spirito critico.
«Sappiate scrivere, non leggere, non importa», diceva con aria provocatoria Andrea Zanzotto. Di fatto, siamo un popolo di scrittori mancati, di poeti misconosciuti e di grafomani impenitenti. Ma l’aspirazione a essere grandi lettori è meno diffusa. Nessuno si è mai presentato da me dicendo: «Sono un lettore professionale, non scrivo perché ho ancora tanto da leggere». No, accade il contrario. Tutti hanno un manoscritto, o meglio una chiavetta Usb, con il romanzo della loro vita. La lettura è spesso distratta, superficiale. Nell’era dei social network si ha la presunzione di capire un testo con uno sguardo al titolo, con un veloce scrollare della pagina elettronica, con un ricorso sempre più affannoso ai riassunti modesti e incompleti che un browser incolto ci propone in pochi secondi, in base a una selezione opinabile dai criteri sconosciuti. Ne siamo vittime tutti. Poco consapevoli dei rischi. Il linguista Federico Roncoroni propone invece questo adagio: «Legere necesse est, scribere non est necesse». Non è necessario scrivere, è necessario leggere. E farlo bene. Una buona lettura insegna a dar forma adeguata alle proprie idee, «a organizzare i pensieri in modo logico e consequenziale — dice Roncoroni — sia nella fase dell’elaborazione mentale sia in quella dell’esposizione orale e scritta, abitua a evitare salti concettuali e ridondanze, predispone a usare una lingua corretta, nell’ortografia, nelle concordanze morfologiche e nelle strutture sintattiche, e lessicalmente ricca e variata, scritta nel giusto registro — familiare, colloquiale, formale — a seconda di ciò che si vuole comunicare e a chi lo si vuol dire».
Una bella e dimenticata «Pubblicità progresso» di qualche anno fa, con il nobile intento di promuovere la parola scritta — e non in alternativa all’uso massiccio delle immagini —, mostrava due amici che si rivedevano dopo tanto tempo in una stazione ferroviaria. Abbracci, lacrime e parole spezzate, incomplete. Una grande emozione non trasmessa con le parole e soffocata dagli imbarazzi. Il silenzio è eloquente, ma la conversazione lo è di più. Purché si conoscano più di due parole in croce per trasmettere emozioni e sentimenti. Borges sosteneva che noi non siamo ciò che scriviamo, ma ciò che leggiamo. E la lettura non solo fa bene alla mente e allo spirito, rafforza le identità culturali e civili, protegge dalle sordità contemporanee e incoraggia la virtù dell’ascolto, ma assolve alla tutela di un tesoro nazionale del quale non abbiamo consapevolezza. Ci indigniamo e mobilitiamo (non come dovremmo) per gli sfregi costanti al patrimonio artistico e culturale del Paese, ma assistiamo con colpevole rassegnazione al degrado della nostra lingua, gettata, a volte con disprezzo, nella discarica della storia. «I libri e i giornali — dice ancora Roncoroni — possono arginare il tracollo dell’italiano, salvare per esempio il congiuntivo dall’invadenza dell’indicativo, rivalutare la funzione dei sinonimi per garantire la varietà e la precisione lessicale e almeno rallentare l’ingresso a valanga di inutili parole straniere». Di tutto questo siamo responsabili anche noi. Ma qualche ravvedimento operoso ci va almeno riconosciuto.
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