La favola del cannone di cristallo che mandò in crisi la Serenissima
Giulio Giorello
"Corriere della Sera", 29 dicembre 2012
L'antefatto della nostra storia tratta di una nobildonna di Venezia e del «suo infinito amore per un maestro vetraio, il quale, discendendo dagli dei, aveva imparato a fondere le stelle del firmamento e a portarle in terra, per illuminare le notti senza luna e un giorno aveva illuminato la sua vita, dandole un figlio».
Poi la vicenda del protagonista di Vetro, romanzo di Giuseppe Furno che Longanesi manda in libreria il 2 gennaio, si snoda tra mille colpi di scena nella Venezia della seconda metà del Cinquecento, quando la marea della potenza della Serenissima ha passato il culmine della fortuna, mentre il fasto dei dogi ancora nasconde il declino della «città malata», come la chiama sprezzantemente il pontefice romano. Andrea Loredan è il figlio della gran dama, conteso tra la pratica della legge, che applica con intransigenza contro la prepotenza dei corrotti, e il fascino delle «metamorfosi del vetro», modellato in infinite forme bellissime dagli artefici di Murano. Assiste all'incendio dell'Arsenale (a suo tempo cantato da Dante e che sarà ancora celebrato da Galileo all'esordio dei suoi Discorsi), appiccato non da agenti turchi ma da uno sprovveduto veneziano. Traditore suo malgrado, viene degradato lui stesso da patrizio a galeotto (un po' come il grande Dago del fumetto di Robin Wood) e fa l'eroe nel caos ribollente del «macello» delle Curzolari, evento più noto come battaglia di Lepanto (1571). Vi trova la salvezza, e viene premiato dall'amore della donna per cui si è giocato la carriera, strappandola agli artigli dell'Inquisizione.
L'istituzione non si limita a straziare i corpi. Colpisce le anime, perché mira a distruggere qualunque libro che porti in sé i germi del dissenso. Loredan abbandona la sua fede in legge e ordine mentre si batte per difendere la biblioteca segreta della madre, che contiene non solo i volumi proibiti degli «eretici», da Erasmo a Calvino, ma persino una copia del Corano e, soprattutto, le esoteriche ricette per domare il «drago delle fornaci», ovvero il fuoco da cui sorge il vetro.
Come racconta Furno, alla fornace, strumento dell'arte antica, si affianca il torchio dello stampatore, congegno principe della modernità: «Nei libri non abbiamo mai cercato la verità — dichiara uno dei personaggi chiave del libro —, ma la libertà». Anzi, qualsiasi libro va difeso, non foss'altro «per dare al falso pari dignità del vero». Prima che qualcuno oggi, e non nel 1570 o giù di lì, dia a Furno o a certi personaggi del suo Vetro la patente di «relativista», è bene ricordare che è il diritto all'errore che ha consentito insieme la ricerca scientifica e la sperimentazione artistica. Come diceva un quasi contemporaneo di Andrea Loredan, il grande Francesco Bacone, è meglio cominciare da una teoria falsa che dalla mera confusione mentale. Ma ciò comporta la curiosità tutta mondana per i corpi — terrestri o celesti che siano — che è anatema per gli inquisitori di ieri come per i fondamentalisti di oggi.
E qui c'entra anche il vetro: «Avete visto Venere e Giove, ma con la stessa facilità si possono osservare le cose sulla Terra. Proprio qui, dal campanile, scorgemmo le vele nel golfo di Venezia, a trentacinque miglia di distanza e anche il riflesso dorato dell'arcangelo sulla guglia di San Marco». In alcune pagine Furno si concede il lusso di un po' di fantatecnologia, attribuendo ai suoi inquieti eretici veneziani l'impiego di un «occhiale sidereo», quello che poi sarà il cannocchiale con cui Galileo scoprirà qualche decennio dopo i satelliti di Giove e le fasi di Venere! Nella finzione, però, il percorso dello strumento va dall'impiego nello studio del cielo alle possibili applicazioni militari su questa terra: i turchi vogliono impadronirsi dei libri segreti per disporre anch'essi di quella meravigliosa tecnologia. Salvo che a Lepanto il capo della flotta ottomana si spazientirà nel vedere solo «macchie», appoggiando l'occhio al nuovo «cannone ottico», preferendo alla fine servirsi della propria vista, come avrebbe fatto qualche tradizionalista rifiutando le osservazioni di Galileo, ma non gli accorti gesuiti, i quali dovevano dichiarare «veridico» lo strumento!
Siamo di fronte a un paradosso creativo della modernità: il cristallo dei tecnici e degli scienziati manda in pezzi le sfere cristalline in cui erano incapsulati gli astri della cosmologia aristotelica, porta acqua al mulino dell'eresia scientifica di Copernico, rivela un universo senza confini. Chiede uno sconcertato ragazzino al sentire quei discorsi: «Ma se tutto si muove, e anche la Terra, perché noi non cadiamo?». La risposta dei nuovi filosofi è che solo «la pesantezza» (cioè l'attrazione terrestre, come dirà Newton) ci impedisce di fluttuare come fantasmi nello spazio. Che dire allora degli uccelli che si librano nell'aria? «Perché non riescono ad andare sulla Luna?», chiede il giovane. La risposta è: «Sì, ci andranno». Nel nostro secolo, e si chiameranno astronauti.
I personaggi di Vetro fanno la stessa esperienza di cosmico spaesamento che proveranno realmente, non molto tempo dopo Lepanto, i contemporanei di Galilei e Keplero. Nel romanzo le menti più sottili di quella Venezia affacciata sull'Adriatico come un «labirinto di Minosse» cominciano a percepire che anche la gloria dell'Arsenale — pur nell'apparente trionfo di Lepanto — sta cominciando a tramontare; e sentono quel «vasto palazzo celeste» che è il mar Mediterraneo. Gli astronomi hanno insegnato che non c'è più qualcosa come una volta celeste che racchiuda il cosmo intero, e che questa non è che un'illusione dei sensi; già da prima gli esploratori hanno mostrato che il mondo abitato non finisce alle colonne d'Ercole: al di là del «Mare Grande», cioè dell'oceano Atlantico, c'è il mondo nuovo delle Americhe, dove alla fine approderanno tutti i «buoni» del romanzo di Furno. Forse con qualche rimpianto.
Insieme con la fortuna di Venezia, finisce pure quel «tempo dei maghi», degli alchimisti e dei cabalisti che aveva ispirato le più belle realizzazioni delle fornaci di Murano. Come nota Yves Hersant (grande studioso di storia delle idee), la malinconia dei moderni nasce dallo scarto «meravigliosamente perverso» tra il nuovo che si scorge e il vecchio che si è sottratto alla nostra vista (vedi il suo bel saggio nel volume Diafano. Vedere attraverso, a cura di Chiara Casarin ed Eva Ogliotti, pubblicato dalle edizioni ZeL). Ma anche per questa malinconia ci vuole coraggio.
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