L’unica copia del pamphlet di Tacito, portata in Italia dal papa Niccolò V,
divenne un totem per i nazisti
Bruno Ventavoli
"La Stampa", 19 dicembre 2012
Io accetto il parere di coloro i quali ritengono che gli abitanti della Germania, non contaminati da nozze con altre popolazioni, siano una gente a parte, di sangue pura e simile solo a se stessa. Da ciò anche l’aspetto fisico è in tutti il medesimo, per quanto è possibile in così grande numero di uomini: occhi fieri e cerulei, capelli rossicci, corporature gigantesche ma adatte solo all’assalto.
Tacito, Germania, IV
Nel 1943 un commando nazista arrivò nella Marche con una missione alla Indiana Jones. Il capo supremo delle SS, Himmler, aveva ordinato di recuperare il più antico manoscritto della Germania di Tacito. I predatori del codice perduto irruppero in una villa nobiliare, frugarono ovunque, devastarono e ripartirono a mani vuote. La bizzarra incursione, mentre la guerra infuriava e prendeva una brutta piega per il Reich dopo lo sbarco alleato in Sicilia, era l’ultimo atto di una caccia al prezioso testo che appassionò bibliofili, papi, intellettuali deliranti, ricostruita nel saggio erudito e appassionante di Christopher B. Krebs, professore a Stanford, Un libro molto pericoloso (Il lavoro editoriale, pp. 254).
Si trattava di trenta paginette scritte in meraviglioso latino per descrivere i costumi degli antichi Germani, alquanto barbari nella loro civiltà, ma dotati di ferrea morale, leali, coraggiosi, integerrimi (seppur inclini alla pigrizia, al gioco d’azzardo, e alla birra). Uomini straordinari guerrieri, donne modello di virtù coniugale e materna (anche perché le rare adultere finivano rapate, denudate e pubblicamente fustigate). L’obiettivo del senator Tacito, dopo gli eccessi di Nerone, era sferzare gli animi contro la tirannide imperiale per tornare alle virtù repubblicane. Parlava di Germani, perché i Romani intendessero.
Del pamphlet tacitiano si persero le tracce nel Medioevo finché la febbre dell’umanesimo scatenò bibliomani, mercanti, mecenati, papi alla ricerca dei classici perduti. Letterati ambiziosi battevano l’Europa in cerca dei codici vergati da pazienti amanuensi nel chiuso dei conventi. Acquistavano, copiavano, al limite trafugavano, in nome della cultura e del collezionismo. Nel XV secolo l’unica copia esistente della Germania apparve nel monastero di Hersfeld. Enoch di Ascoli lo portò in Italia per conto di papa Niccolò V. Si smarrì di nuovo, riaffiorò molto dopo nella polverosa biblioteca dei Baldeschi Balleani, nobile famiglie di Jesi, grazie a don Cesare Annibaldi, insegnante di liceo nonché raffinato cultore dell’antichità, che lo pubblicò nel 1907, alimentando poi gli appetiti della Germania nazista. Prima che Himmler spedisse i suoi scherani, Hitler ne aveva chiesto la restituzione a Mussolini per le Olimpiadi di Berlino del ’36.
Oltre alle brame bibliofile, diventò nel corso dei secoli – come disse Momigliano – «un libro molto pericoloso» per le ideologie che nutrì negli spiriti del Nord. Anche se la Germania tacitiana era un impreciso crogiolo di tribù turbolente ai margini dell’impero che davano filo da torcere alle legioni e volevano restar liberi nelle loro cupe foreste, servì da modello per riaffermare la superiorità tedesca nei confronti dell’Italia ricca, raffinata, corrotta. Non c’era lo spread ma lo scontro ideale e politico non era dissimile ai tempi dell’umanista Conrad Celtis o di Lutero. I tedeschi onesti, leali, rigorosi, parchi; Roma lussuriosa, spendacciona, truffaldina. Il Nord inseguiva la «riforma morale», i Papi succhiavano soldi per innalzare San Pietro e vivere nel lusso, vendevano persino i bond spazzatura delle indulgenze promettendo il paradiso ultraterreno.
Il restauratore della lingua germanica Martin Opitz, all’inizio del ‘600, quando il latino era l’unica lingua colta, risvegliò l’orgoglio per gli antichi bardi tacitiani che guidavano i guerrieri in battaglia, auspicando la promozione letteraria del tedesco. «Fa’ attenzione – diceva al mondo tedesco - che tu, superiore agli altri popoli per forza e affidabilità non sia inferiore nella lingua!». In epoca più moderna, quando la Germania ancora non esisteva come nazione (prima del 1871 era frantumata in centinaia di minuscoli regnetti litigiosi e inconcludenti), i fautori dell’unificazione si appellavano ai fantomatici antenati descritti da Tacito per cesellare appelli politici, letterari, filosofici.
Tacito servì anche ai primi antropologi. Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840) di Gottinga, che da giovane nascondeva ossa di animali domestici sotto il letto del collegio, studiava crani per capire come mai cambiassero (in peggio) i popoli. I progenitori si erano conservati puri, senza mescolarsi con gli altri; se invece si guardava intorno non notava più «i grandi corpi dei nostri antenati forti solo per l’attacco… i fieri occhi blu». Riteneva innata l’inferiorità culturale dei «negri» e considerava i caucasici i più «belli e adatti» al genere umano, ma non si proclamava razzista. Il passo per la superiorità ariana era breve. In meno di un secolo, attraverso Rosenberg e altri teorici della razza, Tacito fu adottato come bibbia del nazionalsocialismo. Al congresso di Norimberga del ’36 si allestì una «stanza germanica» decorata con citazioni tacitiane, il testo entrò nei programmi scolastici (con strategiche censurine sull’amore per l’ubriachezza e i dadi) e citato dalla pubblicistica di regime. Il quarto capitolo, in cui si descrivevano gli avversari dei romani con occhi cerulei, capelli biondo-rossi e alta statura, divenne una legge dello Stato. Anche se i vertici nazisti erano ben lontani dal modello (mori, brutti, fisici sgraziati), arrivarono le misure per la «protezione del sangue e dell’onore tedesco», nel ricordo orgoglioso che i Germani di Tacito «impiccavano o affogavano nelle paludi quanti erano inferiori o predisposti alla perversione».
Himmler, figlio di un prof di lettere classiche, scoprì il testo a 24 anni, quando girava in moto e in treno per fare propaganda. Disoccupato, sottopagato dal partito non ancora al potere, mezzo morto di fame, se lo fece prestare da amici e rimase folgorato dalla gloriosa immagine della grandezza, purezza, nobiltà degli antenati ivi descritti. Annotò nel diario: «Così dovremmo essere ancora, o almeno, alcuni di noi». Nel ’29 Hitler gli affidò le SS. Erano 260 zoticoni. Himmler trasformò l’organizzazione in una efficiente macchina del terrore e dell’utopia razzista, volendo membri che fossero alti almeno 1,75, biondi, capelli chiari, che scegliessero la fedeltà per onore. Più o meno come aveva scritto Tacito. Che tuttavia non sapeva cosa fossero i Germani. Se li era inventati con la sua ironia, la sua amarezza pervasa di rabbia, semplicemente per fustigare imperatori pazzi, matrone lussuriose, cittadini romani incapaci di seguire il bene pubblico.
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