I
l bisogno di eroi
Dall’Eneide al Pop l’epica non muore mai
Nuove traduzioni, riletture, fumetti e applicazioni rilanciano i poemi dell’antichità
Maurizio Bettini
"La Repubblica", 5 dicembre 2012
Che cosa facciamo noi Italiani quando “traduciamo” un testo? Lo “conduciamo dall’altra parte”, perché questo significa letteralmente il verbo tra-durre. È come se prendessimo un romanzo portoghese di Saramago, lo conducessimo fino alla frontiera linguistica che lo separa dall’Italia e lo facessimo passare di là, rendendolo in italiano. Ma come la pensavano in proposito i romani antichi? Quando Plauto traduceva in latino una commedia di Menandro, anche lui conduceva dall’altra parte il testo greco? Niente affatto, lo trasformava. La parola che a Roma si usava per tradurre, ossia vertere, significa infatti questo: mutare in modo radicale, far diventare altro – proprio come la ninfa Dafne si trasforma in alloro sotto le mani di Apollo, o Giove si muta in Anfitrione per sedurre Alcmena. Alla maniera di un dio, il traduttore romano aveva il potere della metamorfosi.
Inutile dire che questo modo di pensare la traduzione suscita un problema di grande rilevanza. Qualsiasi metamorfosi, infatti, presuppone che, nel nuovo essere, resti traccia dello stato precedente – altrimenti, dove starebbe la metamorfosi? Ma la nuova apparenza dovrà conservare memoria della precedente condizione, l’identità del testo deve essere preservata. Già, ma in che misura? E attraverso quali mezzi? Di certo i testi tradotti debbono mantenere memoria di se stessi. Anche nei modi più inaspettati o bizzarri.
Ma questo non deve sembrare un problema da specialisti o da eruditi. Soprattutto oggi quando siamo di fronte a tante traduzioni così diverse dei classici dell’epica. Alte e pop. Dal cinema ai fumetti, fino alle nuove versioni per i più esperti. C’è, forse, un bisogno di eroi, di simboli (i nostri cari archetipi), che hanno radici antiche e dunque forti, riconoscibili. C’è, sicuramente, la necessità di ricostruire una tradizione nelle nuove traduzioni.
Prendiamo, ad esempio, le traduzioni dell’Iliade. Di regola in copertina recano la riproduzione di un vaso attico o, se va male, un cavallo di Troia. L’ultima versione inglese del poema – a partire dal duemila se ne contano almeno dieci - sfoggia invece un Cassius Clay che, in piedi sul ring, guarda dall’alto in basso l’avversario abbattuto: Ettore ko. La trovata editoriale non sarà di gran gusto, ma il segno è chiaro: l’epos non è mai morto, anzi, e adesso è Mohamed Alì che incarna la memoria contemporanea di Achille. Il fatto è che la violenza e la guerra, il viaggio e l’avventura, l’amore e l’abbandono continuano a far parte del nostro immaginario, ed è quindi naturale che si torni ciclicamente a visitarne gli incunaboli contenuti nell’epos antico. Così in Italia l’editore Castelvecchi manda in libreria una nuova versione del saggio sull’Iliade di Rachel Bespaloff a cura di Vittorio Bernacchi, Marvel Italia propone una metamorfosi a fumetti di entrambi i poemi omerici e intanto si stanno diffondendo app e audiolibri dell’Odissea e dell’Iliade. In questo contemporaneo ritorno dell’epos, comunque, c’è un evento che si distingue da tutti gli altri: la nuova traduzione dell’Eneide che Alessandro Fo ha appena pubblicato nella Nue di Einaudi.
La corredano un ricchissimo commento, curato da Filomena Giannotti, e un Profilo di Virgilio in cui si rispecchia intera la singolare natura del suo autore: un latinista poeta, uno studioso (professore di Letteratura Latina all’Università di Siena) che sa di modelli omerici e di tecnica virgiliana, ma che insieme ha un enorme rispetto per la poesia. Questa traduzione ha impegnato Fo per anni, continuativamente, caparbiamente, senza un momento di respiro. Diciamolo subito, Fo la metamorfosi l’ha fatta. La sua Eneide è un’altra, eppure è anche la stessa, questa traduzione italiana del poema virgiliano conserva piena memoria della propria precedente natura. Davanti a noi sta un testo scritto in un bellissimo italiano nel quale però, quasi ad ogni passo, echeggia anche la musica del latino che fu, ma senza che ciò produca melodie barbare e bizzarre. Merito certo della cura con cui Fo ha riproposto lo schema dell’esametro, giocando gli accenti di parola fra ritmo dattilico e spondaico; merito della meticolosa pazienza con cui si è preoccupato di rispettare la natura formulare di certi stilemi cari a Virgilio, resi sempre e dovunque nel medesimo modo, con un effetto di riecheggiamento interno quasi fascinatorio; merito dell’ottima conoscenza del latino, e di quello virgiliano in particolare, che Fo si è guadagnato in decenni di studio e di corsi universitari; ma merito soprattutto dell’essere lui stesso poeta, ossia capace di far suonare come musica parole con cui altri, al massimo, riuscirebbero a esprimere quel che hanno in mente.
Virgilio non è un poeta qualunque: è Virgilio. Se già Silio Italico sacrificava sulla sua tomba come a un dio, se il medioevo lo considerò mago e Dante si fece guidare da lui nel suo viaggio, ci sarà pure una ragione. Tramandata e filtrata dalla lettura ininterrotta di centinaia di generazioni, l’Eneide costituisce uno dei fondamenti della nostra cultura, fa parte del nostro modo di vedere il mondo e di pensare noi stessi. Attraverso gli esametri di Virgilio possiamo leggere il nostro passato, certo, ma anche il nostro presente, storico e umano. La speranza degli esuli che per altri, innocenti, si fa lutto e violenza; l’onore che produce orrore; l’amore che porta abbandono, la morte immatura dei giovani. L’Eneide è come un’enciclopedia di noi. Per questo si meritava una traduzione che fosse, oggi, all’altezza della sua importanza culturale. Lo sappiamo, il capolavoro virgiliano costituisce da anni l’oggetto di ricerche teoriche sofisticate, talora perfino vane, nei laboratori della critica universitaria, così come offre una preziosa (ma anche abusata) fonte di informazioni per filologi, storici e antropologi del mondo antico. Prima d’ogni altra cosa, però, l’Eneide resta un poema che chiede di essere letto. Anche oggi, anche grazie a nuove traduzioni.
«È legittimo presupporre che violenze, stragi e trionfi di guerra non fossero l'ideale cui Virgilio aspirava in tema di offerta delle Muse (...) Per rendersi piú vicina la materia bellica, Virgilio non si rivolse certo al canto della gloria che attende i vincitori: egli quasi ne tace, anche negli scontri che, prima del duello finale, vedono prevalere i Troiani. Fedele a se stesso, avvicinò invece quell'aspra tematica guardando alle privazioni degli sventurati e dei soccombenti: la perdita di un mondo per Enea e i suoi in fuga dalla patria distrutta, per i Troiani ripiegati a Butroto - con la speciale desolazione di Andromaca, vittima di un corto circuito fra vita e morte, fra presente e spettri del passato e della nostalgia -, per Didone cui è strappato Enea, per tutti coloro la cui vita è intercettata e per lo piú spazzata via da un Fato che corre alto sopra le loro teste, proiettato alla costruzione di una Storia che non può avere riguardo della loro privata e personale vicenda. Non è un caso che l'Eneide - che è un universo cosí complesso, e presenta una serie cosí vasta di spunti da considerarsi uno dei piú "inesauribili" fra gli inesauribili classici - sia stata talora etichettata come "il poema dei vinti"».
Dall'introduzione di Alessandro Fo
A SOUND OF ONE’S OWN
RispondiEliminaThis bike whirring on.
As a child it was the simple pleasure
of hearing the gravel
crackling under the wheels.
And worlds brushing me
with the secrecy of a rush along the leaves.
Infinite could be yielded
by closeness and aloneness.
And now, after more than half a life?
Maybe a light beam
in the old ferryman’s eyes
when the whirring will be on ripples
before a landing unknown.