"La Repubblica", 13 dicembre 2012
Immaginiamo di camminare sul pavimento di una cattedrale medievale. Nella penombra, sembra quasi di perdersi tra le immagini di un inesauribile mosaico. L’abside è quasi del tutto coperta da immagini simboliche, riferimenti biblici e figure leggendarie: il re e la regina di Saba, un meraviglioso Leviatano che divora una lepre, la lonza, un drago che uccide un cervo, un uomo con testa d’asino e l’immancabile unicorno. Passando al presbiterio, la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden segna il vertice di un albero della vita che, scendendo nella caduta del peccato, cresce man mano che si avvicina al portale. L’umana vicenda sfuma addirittura i suoi contorni nel ciclo fantastico, e appare persino Re Artù, a cavallo di un caprone, che accompagna i due sventurati peccatori. Infine, fra uomini con tre teste e corpo animale, un Alessandro Magno comodamente seduto tra due grifoni, una scacchiera e due enormi elefanti, l’albero si apre nei percorsi di un labirinto quasi inestricabile.
Questa non è la descrizione di una silloge di scritti di Umberto Eco sul medioevo. È il mosaico della cattedrale di Otranto, opera del monaco basiliano Pantaleo nel XII secolo. Ma esiste anche, appena pubblicata per i tipi di Bompiani, la raccolta degli studi di Eco (Scritti sul pensiero medievale, pagg. 1344). Qui l’autore riordina i suoi lavori sul tema dal 1954 a oggi, tutti già pubblicati in varie sedi, ma ora riuniti per fornire un panorama dei suoi interessi medievistici.
Già scorrendo l’indice si trova molto del percorso intellettuale di Eco. A partire dagli studi sull’estetica, e in particolare sul pensiero di Tommaso d’Aquino, fino alla svolta semiotica, “antichissima disciplina” di cui Eco ha sempre segnalato la profondità storica. È proprio il richiamo alla storicità della ricerca, sottolineata anche negli aspetti teoricamente più sofisticati, a costituire una sorta di continuità nella varietà degli studi presentati. Ne sono prova alcuni saggi, quale ad esempio Sul latrato del cane, che da un argomento apparentemente periferico come quello segnalato dal titolo stesso, si estende sino ad abbracciare il pensiero di Agostino, Abelardo, Tommaso e Ruggero Bacone. Oppure l’Albero di Porfirio, nel quale si svela un ordine del mondo apparentemente fondato su una struttura gerarchica ad albero che, al contrario, si rivela essere costruita ad hoc per sostenere gli imprevedibili sviluppi del reale. Il libro si chiude con una serie di articoli su Dante, sul medioevo come ricettacolo onirico delle nostre paure, su Il Milione come viaggio nella diversità degli altri mondi alla scoperta delle nostre differenze: brevi esercizi di storia delle idee che condividono con il rigore degli studi più scientifici una leggerezza lontana da ogni accademismo e una serietà sempre aliena dalla seriosità.
Il nucleo principale del volume è costituito dall’insieme dei saggi sull’estetica. Quando nei primi anni Cinquanta Eco avvia le sue ricerche, parlare di estetica medievale significava muoversi tra Scilla e Cariddi, tra i cascami di un idealismo che negava ogni ricerca storica che non rifinisse i particolari dello Spirito, e una concezione della filosofia per la quale medievale significava cristiano, e cristiano latino. Così, proprio a partire dagli studi su quel Tommaso d’Aquino che la tradizione cattolica aveva posto come campione e vetta di una (presunta) monolitica civiltà occidentale, Eco ha saputo ricostruire un percorso storico coerente ma, al contempo, aperto agli intrecci con le differenti espressioni del pensiero medievale e al dialogo con le altre epoche. Ne emerge una ricerca in cui l’indagine sulla sensibilità estetica del quotidiano e sulle concrete poetiche delle arti dialoga con l’ideale teologico di una bellezza posta a fondamento della visione estetica dell’universo.
Servendosi degli strumenti di una semiotica che non si sovrappone mai agli oggetti della ricerca, l’attenzione di Eco si sposta poi di continuo lungo la linea della decifrazione allegorica, sull’enigmistica visionaria aperta a molteplici chiavi di lettura. Ma ogni trasfigurazione parte sempre da un atto estetico, da un vedere concreto. Perché l’immaginazione medievale, anche quando filosofica, è fondamentalmente visiva e sia i teologi sia gli autori delle preziose miniature hanno lo stesso problema: risolvere in immagine ciò che il pensiero coglie del divino, così da risalire per visibilia ad invisibilia.
Armato di una dissimulata disinvoltura con la quale padroneggia più metodi interpretativi, Eco castiga ridendo ogni lettura ideologica e, con il tratto dissacrante che caratterizza l’intera sua opera, si muove tra i secoli armato di una sterminata erudizione. Come quando usa la lente del tomismo per indagare le poetiche del giovane Joyce, oppure apre il saggio sul Beato di Liébana con un’intuizione degna degli anacronismi alla Borges: “A leggere oggi, e in spirito laico, l’Apocalisse di Giovanni, si potrebbe godere di questo testo come di un esercizio surrealista”.
I saggi di Eco disegnano un pensiero medievale che, come il mosaico di Otranto, si concede il piacere di indugiare e di perdersi tra i rimandi simbolici, proprio perché crede fermamente nell’esistenza e nell’ordine gerarchico delle cose. E per quanto il medioevo fosse buio o luminoso come ogni altra epoca, rappresentava il mondo dipingendolo con colori elementari, vivaci e senza chiaroscuri. Le figure dei dipinti e delle miniature sembrano irradiare la luce. I poeti esaltano in un volto di donna la bellezza di “un viso di neve colorato in grana” (Guinizzelli). I teologi dibattono sulla realtà dei colori, persino di quelli cangianti che appaiono, e non sono, sul collo delle colombe. E i predicatori esaltano nei sermoni la bellezza delle biblioteche, piccoli paradisi in terra e custodi fedeli di infinite foreste di libri.
(L’autore è docente di Storia della filosofia medievale)
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