sabato 8 dicembre 2012

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre...


Laicità
Se la Chiesa torna a criticare la neutralità dello Stato

Stefano Rodotà

"La Repubblica", 13 dicembre 2012

I principi della convivenza e dell’apertura oggi 
si devono confrontare con il ritorno dell’intolleranza
Un certo fondamentalismo si mostra incapace di comprendere le trasformazioni della società

Alla vigilia di un anniversario simbolico, i millesettecento anni dell’Editto di Costantino, il cardinale di Milano ha mosso una critica radicale alla laicità dello Stato, rivendicando l’assoluto primato della libertà religiosa e sottolineando i rischi che essa corre nel tempo che viviamo. Lo ha fatto costruendo un modello di comodo, di cui Vito Mancuso ha bene messo in luce le omissioni poiché, tra l’altro, non si fa parola delle persecuzioni alle quali proprio i cristiani sottoposero i fedeli di altre religioni. Quell’“inizio della libertà dell’uomo moderno”, che l’Editto di Costantino avrebbe aperto, in realtà ha avuto altri inizi e altre traiettorie. Si dovrà attendere il Rinascimento, con la sua esclamazione “magnum miraculum est homo”. Si dovrà attendere l’affermazione piena della libertà che trovò la sua tavola nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, vero concilio laico quasi due secoli prima del Vaticano II, che aprì le vie per la libertà di tutti. Se oggi vogliamo discutere di laicità, non possiamo ignorare tutto questo, né rifugiarci in una visione caricaturale della laicità attribuita al suo modello francese. Viene da chiedersi la ragione di un riduzionismo così poco accorto da parte di un prelato non sprovvisto di cultura e visione storica. Un interrogativo che merita qualche riflessione, proprio perché oggi il principio di laicità dello Stato si confronta con un nuovo bisogno di sacro che percorre le nostre società e, insieme, si presenta come ineludibile punto di riferimento di fronte alla “nuova intolleranza religiosa” (è il titolo dell’ultimo libro di Martha Nussbaum). Se questo è un itinerario per individuare equilibri adeguati tra religione e Stato, il cammino indicato da Angelo Scola non è certo quello che consente una discussione utile.
Come viene rinverdita la critica alla secolarizzazione? Partendo da due premesse. Dice Scola: «se la libertà religiosa non diviene libertà realizzata posta in cima alla scala dei diritti fondamentali, tutta la scala crolla». E aggiunge: «fino a qualche decennio fa si faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute, almeno in senso lato, come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte».
Il primato della libertà religiosa individua così una forma di Stato che nel fattore religioso trova l’unica legittimazione possibile. Questo vuol dire che lo Stato non può essere individuato come spazio di convivenza di opinioni e credenze diverse, secondo la versione che la laicità è venuta assumendo, con l’abbandono una laicità puramente “oppositiva” nei confronti della religione.
E, parlando di strutture antropologiche, in realtà ci si riferisce ai molti no che la Chiesa ha pronunciato: no alla procreazione assistita; no al riconoscimento giuridico di forme di convivenza diverse dal matrimonio eterosessuale; no alla scuola pubblica come struttura essenziale per la conoscenza e l’accettazione dell’altro; no al testamento biologico.
In queste posizioni vi è più che una ripulsa della laicità. Vi è la negazione della libertà della coscienza e l’affermazione che la definizione dell’antropologia del genere umano è prerogativa della religione. Non siamo di fronte a una discussione dei temi complessi della secolarizzazione, ma al programma di una restaurazione impossibile, dunque destinato non a promuovere dialogo, ma conflitti intorno alla ritornante affermazione di valori “non negoziabili”.
A proposito di antropologia, vale la pena di ricordare la critica di Zygmut Bauman alla tesi secondo la quale, nella fase premoderna, fosse la religione a dare senso alla vita. È dunque una acquisizione storica e culturale quella che riguarda la forte presa della religione cattolica sui temi dell’etica, non un dato indissolubilmente legato al fattore religioso. Con il trascorrere del tempo, quel legame è stato sciolto grazie all’ampliarsi della riflessione etica e al sorgere di una nuova antropologia, prodotta dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Contro questa antropologia si leva la difesa della “natura” impugnata da un fondamentalismo religioso che mostra non tanto una attitudine antiscientifica, quanto piuttosto una incapacità di comprendere le nuove dimensioni del mondo e dell’umanità. È proprio il pensiero laico, invece, a forgiare gli strumenti perché non ci si arrenda ad una deriva tecnologica, con la sua capacità di garantire l’umano attraverso i principi di eguaglianza e dignità, di autodeterminazione della persona.
Non è vero, peraltro, che la dimensione istituzionale sia posseduta soltanto da un riconoscimento della libertà religiosa come fatto squisitamente individuale. L’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea afferma che alle persone appartiene la «libertà di manifestare la propria religione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato». La piena laicità di questa affermazione consiste nel fatto che non siamo di fronte a un privilegio o ad una supremazia, ma ad una libertà che si misura con tutte le altre. L’opposto della ricostruzione del cardinale Scola della laicità come imposizione di un unico punto di vista, mentre essa è un metodo che permette a tutti i punti di vista di convivere in modo fecondo, offrendo proprio alla religione la più civile delle garanzie.

Dai rapporti tra papato e impero a oggi

Tutto iniziò con Costantino

 Agostino Giovagnoli

Le dispute durate molti secoli sulla distinzione fra religione e politica 
sono state superate solo con il Concilio Vaticano II e l’idea di un dialogo fondato su valori comuni

La lunga storia iniziata con l’editto di Milano del 313 continua fino ad oggi. Quell’editto riconosceva libertà di culto ai seguaci di tutte le religioni: i cristiani, in precedenza a lungo perseguitati, furono equiparati ai pagani. Subito dopo, Costantino iniziò a sostenerli, introducendo leggi a loro favorevoli, promuovendo la costruzione di nuove chiese, intervenendo contro scismi ed eresie. Nei secoli, perciò, egli è stato visto in modi contrapposti, come difensore della libertà religiosa e come iniziatore della “chiesa costantiniana” e cioè della commistione tra religione e potere. È un’ambivalenza che ha fatto versare fiumi di inchiostro, pro e contro di lui, ma il più delle volte il suo nome è stato coinvolto impropriamente in problemi e dispute propri di altre epoche.
È accaduto nel Medioevo quando, appellandosi alla donazione costantiniana quale fondamento del potere temporale del papa, si è discusso lungamente della superiorità del pontefice sull’imperatore o viceversa. Era infatti convinzione comune che alla Chiesa spettasse un ruolo diretto nell’organizzazione politica della società europea, dentro lo stretto intreccio tra sacerdotium ed imperium tipico del “regime di cristianità”. Ma Lorenzo Valla ha poi chiarito, nel quattrocento, che la donazione di Costantino era un falso dell’ VIII secolo, fabbricato ad arte per giustificare il potere temporale del papa. La Chiesa costantiniana, insomma, non è stata un’invenzione di Costantino.
La falsità del documento fu dimostrata proprio quando, tornati a Roma dopo l’esilio avignonese, i papi abbandonarono ambiziosi progetti politici, accettando come fondamentali interlocutori – e come scomoda controparte – i grandi Stati moderni. È iniziata allora una distinzione tra istituzione ecclesiastica ed istituzioni politiche che costituisce la principale originalità europea nei rapporti tra Stato e Chiesa. Anche tutta l’età moderna, però, è stata attraversata da ambiguità nella divisione dei compiti tra le due istituzioni, malgrado il positivo superamento dello Stato quale braccio armato della religione. E anche dopo la radicale separazione tra Stato e Chiesa imposta dalla Rivoluzione francese, le ambiguità sono continuate: gli stessi rivoluzionari tentarono di imporre un nuovo culto, alla Dea Ragione, una sorta di “religione della laicità” quale nuova religione di Stato. In reazione, da parte cattolica si cominciò ad evocare il mito della cristianità medievale e le sue (false) origini costantiniane. Solo dopo molte tormentate vicende, è maturato un senso pieno della laicità come insieme di valori condivisi e, con il Concilio Vaticano II, si è parlato di definitivo superamento della (cosiddetta) Chiesa costantiniana.
Pochi giorni fa il cardinale Scola ha aperto l’anno costantiniano, toccando il problema della «commistione tra il potere politico e la religione» e formulando alcune osservazioni critiche in tema di laicità dello Stato – con un riferimento alla riforma sanitaria di Obama – che hanno fatto discutere. Tra i temi di questo anno, oltre a quello della libertà religiosa su cui ha insistito il cardinale Scola, interesse particolare riveste la scelta costantiniana di equiparare sul piano dei diritti cristiani e pagani, senza proibire il paganesimo sostituendolo con il cristianesimo. Anche oggi, infatti, il rapporto tra libertà religiosa e costruzione di una convivenza pacifica tra uomini e donne di religioni diverse costituisce una questione rilevante.


Scola, lo Stato laico e la libertà religiosa

Vito Mancuso

"La Repubblica",  7 dicembre 2012

È TRADIZIONE che i discorsi tenuti il giorno di Sant’Ambrogio dagli arcivescovi di Milano siano caratterizzati da una profonda attenzione all’attualità sociale e politica. È il caso anche del discorso tenuto ieri a Milano da Angelo Scola, nel quale il cardinale è giunto a pronunciare parole molto pesanti.
PAROLE a mio avviso poco fondate, su un tema di straordinaria delicatezza quale quello della laicità e della aconfessionalità dello Stato. Scola è partito da molto lontano, dall’anno 313, visto che l’anno prossimo saranno 1700 anni da quell’Editto di Milano con cui Costantino e Licinio posero fine alle persecuzioni contro i cristiani. Scola non esita a celebrare tale editto come “l’atto di nascita della libertà religiosa”. È doveroso chiedersi per chi tale libertà nacque, e la risposta corretta è per i cristiani, i quali, da perseguitati sotto alcuni imperatori romani (in particolare Decio, Valeriano e Diocleziano) iniziarono a godere libertà di culto e poterono professare pubblicamente la loro religione. Ma alla loro libertà non seguì la libertà di altri. Io penso quindi che non sia corretto da parte di Scola elogiare così tanto l’Editto di Milano senza neppure ricordare l’Editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio del 380 con cui si toglieva la libertà di religione ai pagani, cui seguirono tra il 391 e il 392 i Decreti teodosiani che mettevano al bando ogni forma di sacrificio pagano, anche in forma privata, compresi i culti dei lari e dei penati che da secoli gli abitanti della penisola italica praticavano nelle loro case. È vero che Scola scrive che l’Editto di Milano fu un “inizio mancato”, ma non si può sorvolare in questo modo così leggero su secoli e secoli di sanguinosa intolleranza cattolica, generata da tale editto e dal matrimonio con il potere imperiale che esso comportava. La cosa era del tutto chiara già a Dante Alighieri: “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!” (Inferno XIX, 115-117), laddove tra i mali procurati dall’alleanza con il potere politico oltre alla corruzione della Chiesa vi sono le sanguinose persecuzioni contro ogni forma diversa di religione, in particolare contro i catari, i valdesi, gli ebrei.
La storia insegna che si dà libertà religiosa solo nella misura in cui lo Stato non si lega a nessuna religione particolare, solo se si pone di fronte ai suoi cittadini con l’intenzione di rispettare tutti, minoranze comprese, solo se pratica quella forma di neutralità così esplicitamente criticata dal cardinal Scola nel suo discorso di ieri. Per Scola infatti occorre “ripensare il tema della aconfessionalità dello Stato”, facendo in modo che lo Stato passi da una visione pluralista a una visione culturalmente in grado di sostenere le “dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte”: insomma i cosiddetti valori non negoziabili tanto cari a Benedetto XVI, cioè vita, scuola, famiglia, da intendersi alla maniera del Magistero cattolico attuale (che non è detto coincida con il vero senso del cristianesimo).
Prova ne sia proprio il tema della libertà religiosa, la quale, se è giunta a essere un patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, è solo grazie alla lotta in favore dei diritti umani da parte della laicità illuminista. La libertà religiosa è stato il dono della laicità al cristianesimo. Senza lo Stato laico, senza la sua volontà di rispettare le minoranze come quelle dei valdesi e degli ebrei dando loro gli stessi diritti della maggioranza cattolica, la Chiesa non sarebbe mai giunta al documento Dignitatis humanae del Vaticano II che apre finalmente la gerarchia cattolica alla libertà religiosa, dopo ben 1573 anni (distanza temporale tra la Dignitatis humanae del 1965 e l’ultimo decreto di Teodosio del 392)! Per rendersene conto è sufficiente leggere i documenti pontifici che durante la modernità condannavano aspramente la lotta dei laici e di alcuni teologi a favore della libertà religiosa, come per esempio le parole di Gregorio XVI che nel 1832 bollava la libertà religiosa come deliramentum o le parole di Pio IX nel 1870 o quelle di Leone XIII nel 1888.
Scola ha ragione nel dire che “il nostro è un tempo che domanda una nuova, larga cultura del sociale e del politico”. Ma questa larghezza della mente e dell’anima dovrebbe riguardare davvero tutti, anche la Chiesa cattolica, la quale non può limitarsi a rimpiangere Costantino e Teodosio e magari a cercare candidati politici che ne ricalchino le orme.

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