Giacomo Papi
"La Repubblica", 11 dicembre 2012
Perché esiste qualcosa invece del nulla? Prima di Dio, del bene e del male, del chi siamo da dove veniamo e dove andiamo, il vero mistero è che qualcosa ci sia. Qualsiasi cosa: i gatti, questo computer, le nuvole in cielo, le radici degli alberi, questa parola stampata su un foglio.
Why Does The World Exist? di Jim Holt – scelto dal New York Times tra i dieci migliori libri del 2012 – è il tentativo di rispondere a questa domanda. Martin Heidegger nel 1935 la definì la questione metafisica fondamentale, ma il primo a formularla, nel 1714, fu Gottfried Leibniz, grande diplomatico filosofo matematico, e inguaribile ottimista. In 279 pagine Jim Holt – un collaboratore del New Yorker il cui precedente libro, forse non a caso, riguardava la filosofia delle barzellette – riesce a mettere in scena un’inchiesta, un romanzo picaresco, una detective story, un saggio e un manuale di filosofia antica, moderna e contemporanea. Riesce a inseguire e cesellare la domanda sull’essere e il nulla come un orefice, strappandola alla polvere dei trattati accademici per restituirla alla vita.
Lo stile è semplice, a tratti spiritoso, giornalistico (la filosofia o riguarda tutti oppure non dice niente a nessuno). Il meccanismo narrativo è antico: il viaggio. Jim Holt gira il mondo per incontrare alcuni tra i più meravigliosi cervelli contemporanei – filosofi, fisici, matematici, scrittori – senza mai smettere di rimuginare e riformulare all’infinito la stessa domanda. Sbevazza con un vecchio playboy al Café de Flore di Parigi dove Jean-Paul Sartre – che lo usava come ufficio – ambienta un celebre capitolo dell’Essere e il Nulla.
Vola all’università di Austin, Texas, e poi in quella di Pittsburgh, Pennsylvania, raggiunge in treno Oxford e si precipita a New York per curare il suo cane, si trasferisce a Guelph in Canada e ritorna in Virginia di corsa a trovare sua madre.
È un procedere circolare che scarta di lato all’improvviso per illuminare la questione da un’altra prospettiva ancora, e nel riepilogare il tormentato rapporto tra filosofia e pensiero del nulla – Agostino, Spinoza, Fichte, Hegel, Wittgenstein, Heidegger, Sartre, Gödel – lo intreccia alle vertigini spalancate nel Novecento dalla logica, dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica. È qui che Why Does The World Exist? diventa un viaggio in un paese delle meraviglie fatto di infiniti mondi paralleli o di pure forme, un percorso psichedelico che riconduce sempre davanti a Dio o, in alternativa, al Nulla. Intanto, sulla strada, ascoltando grandi cervelli, l’inverosimile acquista verosimiglianza.
In una casa di Manhattan il matematico sir Roger Penrose ribadisce la sua fede nell’esistenza di un mondo platonico fatto di numeri e forme perfette con cui la mente umana entra in contatto ogni volta che pensa. A Standford, in California, il fisico russo Andrej Linde, teorico dell’inflazione caotica, racconta: «Ho dimostrato che non possiamo escludere la possibilità che il nostro universo sia stato creato in un altro universo da qualcuno che semplicemente aveva voglia di farlo». Un altro transfuga della fisica, l’ucraino Alex Vilenkin (già “guardiano notturno di uno zoo” nell’ex Urss) spiega in che modo bolle di spaziotempo possano emergere dal vuoto dando vita a universi infiniti. Steven Weinberg, premio Nobel per la fisica nel 1979 e padre del modello standard delle particelle, commenta: «Vilenkin è un ragazzo intelligente, ma la verità è che al momento siamo troppo ignoranti». La domanda pulsa, si riavvolge e dipana: perché c’è qualcosa invece del nulla? Le risposte si intrecciano. Solo il filosofo della scienza Adolf Grünbaum – «un incrocio tra Danny De Vito ed Edward G. Robinson» – respinge la questione come insensata.
Il problema – spiega Jim Holt – è che c’è nulla e nulla. L’assenza e il vuoto sono fenomeni dinamici e pieni. Il passaggio all’essere coinvolge il tempo e il tempo non può esistere prima che esista qualcosa. Noi siamo liberi soltanto di decidere quando fermarci, di quale ipotesi accontentarci. Per alcuni – è il caso del filosofo Richard Swinburne – questa risposta è Dio. Per la maggioranza – tra cui David Deutsch, “inventore” del computer quantistico universale – è più sensato ammettere l’esistenza di universi multipli. Ma forse anche la scienza è questione di fede. È l’opinione di John Updike, l’autore di Rabbit Run, che non crede ai quanti, ai buchi neri e nemmeno al big bang perché non li ha mai visti e non capisce come mai dovrebbero essere più plausibili degli angeli. «Forse Dio ha creato l’universo perché si annoiava», dice, «per gioco». Al momento dei saluti, Updike si lamenta di non avere più fiato. Sarebbe morto qualche mese più tardi di tumore ai polmoni.
Tra le pagine, per quanto ironiche e divertite, o forse proprio per questo, serpeggia un impercettibile senso di panico. La domanda perché c’è qualcosa invece del nulla, infatti, ne presuppone e sussurra un’altra: perché moriamo, perché le cose – e noi fra le cose – dobbiamo tornare a essere niente. Il trattato filosofico sgorga, così, in quello autobiografico. Il libro termina con la descrizione esatta e dolcissima della morte della madre del narratore. Termina con un figlio che posa i polpastrelli sulle palpebre della donna che lo ha messo al mondo per chiuderle per sempre.
«La filosofia è una strada con molte diramazioni che porta da nessun luogo al nulla», è la frase di Ambrose Bierce che chiude il libro. Ma forse anche la vita è una pausa nel nulla. Il vero mistero è che nel tempo breve di questo battito di ciglia ci stiano così tante cose: stelle e ottaedri, clessidre e farfalle, aeroplani e galassie, brasserie parigine, grandi vini rossi e meravigliosi cervelli. Che ci sia spazio per gatti, computer e nuvole in cielo, o per questa parola da cui tutto è iniziato.
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