martedì 4 dicembre 2012

La sfida della scienza alla letteratura


Quando l'uomo artificiale dice «io» 

I romanzi di fronte a caos subatomico, bit, Dna e bosone di Higgs

Claudio Magris
"Corriere della Sera", 3 dicembre 2012

Giuseppe Petronio, storico letterario autore di tante eminenti opere improntate a un robusto realismo critico, mi punzecchiava ogni tanto affettuosamente, durante gli anni in cui eravamo colleghi a Trieste nella facoltà di Lettere che lui presiedeva, per la mia passione per il romanzo sperimentale del Novecento, così diverso da quello ottocentesco a lui caro: «Tu e voi altri della vostra generazione, col vostro Joyce...». Mi era facile obiettargli che Joyce era più o meno un contemporaneo di suo padre (Petronio era nato nel 1909). Quella sua battuta esprimeva tuttavia la pluralità e la sconnessione di tempi che caratterizza la letteratura del Novecento e di oggi, a dispetto delle date di pubblicazione. Il Mulino del Po di Bacchelli esce nel 1938-40 e lo si gode ed apprezza come un romanzo che sarebbe stato capito ed amato pure dai nostri antenati ottocenteschi. I turbamenti del giovane Törless di Musil escono nel 1906 e i primi abbozzi dell'Uomo senza qualità (il cui primo volume viene pubblicato nel 1930) risalgono a centodieci anni fa, ma ci turbano (affascinano, respingono, incantano) come opere di oggi o addirittura di domani, nutrite di una visione del mondo e di una conoscenza del mondo per noi ancora ardue, vertiginose, che ci disorientano.
Tutto ciò è dovuto pure alla scissione che si è verificata tra scienza e letteratura o meglio tra l'immagine della realtà e della vita offerte oggi dalla scienza e i nostri millenari modi di percepire la realtà, di intenderla, di rappresentarla, di narrarla. In precedenza, per molti secoli, le conoscenze che la scienza dava sulla natura e sull'uomo avevano influenzato concretamente la visione che l'individuo, pur digiuno di preparazione scientifica, aveva del mondo e, se si trattava di un artista, il suo modo di rappresentarlo. Nel poema di Lucrezio la fisica epicurea diventa il modo di sentire la natura e la vita, diventa un altissimo poema che parla a tutti. Quando Copernico e Galileo sfondano i cieli, si guardano, si percepiscono e si cantano le stelle in modo nuovo; il tempo assoluto di Newton sembra corrispondere al sentimento umano di vivere il tempo e nel tempo.
La teoria della relatività e la meccanica quantistica, in particolare il principio di indeterminazione, sembrano contraddire radicalmente il modo in cui la nostra mente e i nostri sensi la comprendono, la vedono e la percepiscono e dunque i modi in cui la fantasia poetica può rappresentare la nostra storia e il nostro destino. Le consuete idee di spazio e tempo si dissolvono, ha scritto Carlo Rovelli sul «Sole 24 Ore»; «lo spazio è curvo e tutto in esso è continuo ma è anche piatto e in esso saltano quanti di energia; il mondo appare lontano da quello che ci è familiare». Quando sentiamo dire che qualcosa è un corpuscolo oppure un'onda, a seconda di come lo misuriamo, o che il gatto di Schrödinger può essere contemporaneamente vivo e morto, abbiamo l'impressione che questo mondo scoperto dalla scienza (e noi stessi che ne facciamo parte e ne siamo costituiti) c'entri assai poco con noi, con la nostra vita, i nostri sentimenti e i nostri pensieri; col nostro innamorarci, essere felici o infelici, con le nostre fedi, con il nostro vivere e il nostro morire.
Forse è stato Musil a narrare questo reale e destabilizzante nuovo volto dell'uomo; per questo L'uomo senza qualità è un romanzo che parla del futuro, di ciò che ancor oggi è per noi, esistenzialmente e culturalmente, futuro. In generale, la letteratura odierna continua invece a raccontare la vita come se quell'abisso fra noi e il nostro mondo e noi stessi non esistesse. Questo patetico anacronismo contrassegna gran parte della produzione letteraria attuale, salvo rare eccezioni. Ne parlo con uno dei pochissimi scrittori che affrontano creativamente, con notevoli risultati poetici, questa sfinge, Giuseppe O. Longo.
Professore emerito di Teoria dell'informazione all'Università di Trieste, autore di originali contributi scientifici riguardanti la matematica e l'ingegneria elettronica, rigoroso scienziato e generoso divulgatore, Longo si è occupato di intelligenza artificiale e di epistemologia. Da questa formazione scientifica è nata la sua fantasia narrativa, che si muove sulle inquietanti nuove frontiere fra letteratura e scienza, con un senso kafkiano e borgesiano del mistero tanto più enigmatico quanto più razionalmente indagato, in un corto circuito fra l'arcaico e il futuribile, il caos indeterministico del mondo subatomico e la cosmogonia protesa sempre ad altri e nuovi universi. Il fuoco completo (1986) racconta la dolorosa poesia dell'intelligenza artificiale che si affaccia ai confini dell'umano; nel romanzo Di alcune orme sopra la neve (1990) la realtà, vissuta e analizzata con asciutta precisione scientifica, diviene una mappa esatta in cui ci si smarrisce. Nell'Acrobata(1994) le indagini su una fantomatica macchina capace di decifrare, mediante un ipotetico codice universale, tutti i messaggi si fondono col giallo e con la metafisica. Longo si avventura negli abissi della vita come nelle circonvoluzioni del cervello (i testi teatrali del Cervello nudo, 2004), nei gorghi della passione sensuale (La gerarchia di Ackermann, 1998) e negli spazi celesti in cui la fisica diviene, come in antico, cosmogonia. In un altro racconto, il «paziente» si rivela il mare malato. Abbiamo diretto per alcuni anni, successivamente, il settore «linguaggi scientifici e linguaggi artistici e letterari» della Sissa di Trieste.

Come vedi - gli chiedo - il rapporto fra la nostra percezione e la nostra - così diversa, opposta - conoscenza di come il mondo veramente è? E come vedi il rapporto tra la tua ricerca di studioso e la tua creazione letteraria?

Longo - A volte ho la sensazione di essere di fronte a una di quelle figure ambigue studiate dagli psicologi, che offrono due immagini tra le quali la nostra percezione oscilla senza mai poterle afferrare contemporaneamente: da una parte la visione ravvicinata dell'uomo, con i suoi drammi e le sue passioni (offerta dalla letteratura tradizionale), dall'altra la visione dell'uomo immerso nel contesto della più ampia realtà fornita dalla scienza contemporanea. Unire le due visioni è difficilissimo. Una difficoltà ulteriore è rappresentata dal formalismo matematico di cui la scienza si serve e che è impossibile tradurre senza residui nella narrazione: le equazioni della meccanica quantistica dicono molto di più (ma anche molto di meno) della loro traduzione narrativa. E solo chi è esperto di formalismo può capire a fondo la differenza. Non dimentichiamo la terza coordinata del mondo attuale, la tecnologia: è grazie ad essa che la scienza ha potuto compiere molte scoperte, per esempio quella recentissima del bosone di Higgs, che era stato postulato mezzo secolo fa in base a una visione che definirei metafisica, basata sull'esigenza tutta umana che l'universo fosse simmetrico e anche bello. Mentre un tempo le idee metafisiche di Talete e di Platone restavano nel mondo concettuale, oggi possono essere verificate o confutate con la tecnologia: l'acceleratore Lhc di Ginevra ci ha detto che sì, l'universo è simmetrico e bello, come Higgs aveva supposto. Il computer, che è la più grande invenzione del Novecento...

Magris - C'è anche il Dna, scoperta ancor più ricca di effetti sconvolgenti...

Longo - Certo. Il computer peraltro moltiplica i mondi e ci offre la visione vertiginosa di possibilità inaudite relative all'intelligenza, alle emozioni, alla coscienza. Il tentativo di costruire l'uomo artificiale si rivela anche un'esplorazione dell'uomo «naturale». Sotto questo profilo letteratura e scienza offrono narrazioni alternative (ma, credo, legate tra loro nel profondo) dell'uomo e della natura, e sono entrambe tentativi di dare un senso a noi e a noi nel mondo.

Magris - A quale mondo? Al macro o al microcosmo? Heisenberg, come tu hai scritto, ha dimostrato che nel macrocosmo vige la legge di causalità, il determinismo, ma che nel microcosmo, nel mondo subatomico, vige il caos, l'indeterminismo totale...

Longo - Anche i tuoi Microcosmi, in fondo, evocano un proliferare imprevedibile di mondi - esteriori e interiori - minimi, che sfuggono al principio di causalità.

Magris - Sono solo un orecchiante di scienza e l'influsso di ciò che posso cogliere può essere solo indiretto, inconsapevole. Sì, è stato detto che, nei miei Microcosmi , le cose sembrano dissolversi. Si dice che i bit, l'astratta e immateriale informazione, sembrano sostituire gli atomi, la realtà corposa, fisica; la virtualità sostituisce la realtà, l'esperienza sembra appartenere a tutti e a nessuno, l'Io stesso sembra spezzarsi in frammenti. Ma il senso da dare a noi e al mondo è resistere a questa dissoluzione, pur facendo i conti con un Io individuale che, almeno da Dostoevskij e da Nietzsche, appare una molteplicità fluttuante e lacerata, come il protagonista del mio romanzo Alla cieca. Ma credi si possa veramente narrare questa realtà che sfugge ai nostri sensi e alla nostra ragione, questi campi di energie, questi reticoli di particelle e queste sinapsi di neuroni che sono gli uomini, che siamo noi, o che si possano scrivere soltanto delle metafore di tutto questo? Nel tuo romanzo Di alcune orme sopra la neve si parla, durante una lezione del protagonista sulla teoria della relatività, dei "ponti di Schwarzschild", che costituiscono una scorciatoia per passare da un universo all'altro» e questo tema è fondamentale nel romanzo. È una metafora, è un concetto scientifico usato quale metafora? E se è così, è lecito farlo? E su quali strade letterarie tutto ciò può condurre?

Longo - È una questione di importanza capitale: i ponti di Schwarzschild sono previsti dalla teoria, ma non so se potremo mai osservarne uno: quindi diventano una potente metafora che ci guida nella narrazione del mondo. Nel suo straordinario poema Lucrezio poteva inserire con una certa facilità (non voglio essere irriverente) la sua visione dell'atomismo nel mondo degli uomini, perché l'atomismo di Democrito era semplice ed era solo pensato (era una metafisica). Oggi il quadro è terribilmente complicato e il mondo pensato interagisce continuamente con il mondo sperimentato, perciò un'operazione poetica, di tipo lucreziano, è molto più difficile. Come nelle figure bistabili, ciò che si narra rischia da una parte di essere piattamente saggistico e descrittivo oppure, dall'altra, di acquisire una irrimediabile tinta metaforica ancorché poetica, ma slegata dal quadro fornitoci dalla scienza. Ma non bisogna arrendersi, anche se l'impresa appare impossibile: come si sente dire Enrico, il protagonista del mio Di alcune orme sopra la neve, «Fare la carta è necessario, ma non bisogna sperare di riuscirci». Il post-umano è alle porte, e rischia di rendere obsolete le narrazioni che da secoli ci facciamo. Credo che si debba tenerne conto.



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