Il filosofo Foessel analizza l’idea di catastrofe che appartiene al nostro tempo
“E’ il declino dell’Occidente che ci fa temere l’apocalisse”
Fabio Gambaro
"La Repubblica", 11 dicembre 2012
PARIGI - Il 21 dicembre 2012 s’avvicina. Una data a cui molti guardano con un misto di curiosità e apprensione, per via della profezia del calendario Maya che per quel giorno fatidico ha annunciato la fine del mondo. In Francia, se ne parla molto, anche perché, secondo antiche leggende, Bugarach, un paesino vicino ai Pirenei, avrà la fortuna di essere risparmiato dall’apocalisse prossima ventura. Motivo per cui la località è presa d’assalto da frotte di turisti e curiosi, al punto che il prefetto ha deciso di vietarne l’accesso ai non residenti.
Di fronte a queste paure e credenze più o meno diffuse, di solito si parla di superstizione, irrazionalità e ignoranza. Tuttavia, secondo Michaël Foessel, un giovane e brillante filosofo che insegna alle università di Digione e Berlino, l’ossessione della fine del mondo deve invece essere letta e analizzata come un sintomo della condizione contemporanea, dominata dalla precarietà e dall’alienazione. Tesi spiegata diffusamente in un interessantissimo saggio da poco arrivato nelle librerie francesi e già al centro di molte discussioni, Après la fin du monde. Critique de la raison apocalyptique (Seuil).
«L’attenzione per le profezie apocalittiche contemporanee è molto marcata soprattutto in Occidente, mentre è quasi del tutto inesistente nel resto del mondo. In Messico, ad esempio, della profezia dei Maya si parla pochissimo», spiega lo studioso francese, già autore di un mezza dozzina di saggi molto apprezzati. «Secondo me, l’ossessione occidentale per la fine del mondo va messa in relazione con la sensazione della fine del “nostro” mondo, vale a dire il declino storico dell’Occidente. La globalizzazione del pianeta ha tolto al mondo occidentale la sua posizione dominante. Da qui il fascino della decadenza e del crollo, che trova la sua concretizzazione estrema nelle paure apocalittiche. La paura della fine del mondo nasce insomma dalla sensazione che il nostro mondo, i nostri valori, la nostra ricchezza, i nostri punti di riferimento siano sul punto di scomparire. In fondo, tali paure indicano innanzitutto il rifiuto di adattarsi alle conseguenze della mondializzazione».
Non sono anche un modo per esorcizzare la paura della morte?
«In effetti, la fine del mondo è la versione democratica della morte, consente di condividere in modo egualitario qualcosa di molto singolare e non condivisibile, vale a dire la propria morte. Di fronte all’apocalisse saremo tutti uguali. Paradossalmente, in un mondo sempre più dominato dall’individualismo e dalla disuguaglianza, la catastrofe consente di ricreare una certa comunità di destini».
Pensare che il mondo sia inesorabilmente destinato a scomparire non è anche un modo per giustificare l’impossibilità o l’incapacità di intervenire sul suo divenire?
«Certo. Il mondo in cui viviamo si trasforma di continuo anche per via dell’evoluzione tecnologica. E’ un processo che trasforma la nostra vita ma che non dipende da noi e sul quale abbiamo l’impressione di non avere alcuna presa. La paura della fine del mondo nasce anche da questa sensazione, che naturalmente finisce per deresponsabilizzarci. La realtà non dipende da noi e l’idea dell’apocalisse conforta questa convinzione. La fine del mondo domanda un’attesa passiva, non certo l’azione. Insomma, se il mondo sta per finire, è perché in fondo abbiamo la sensazione di averlo già perso. E lo abbiamo perso proprio perché non lo sappiamo più trasformare».
Lei dice addirittura che perdere “un” mondo è addirittura più grave della fine del mondo. Perché?
«Chi ha la sensazione di aver perso il proprio mondo pensa di non aver più alcun futuro possibile davanti a sé. Ciò riguarda soprattutto i più poveri e i più deboli. La precarietà, la solitudine, la segregazione sociale sono forme di questa condizione. A tutto ciò – che naturalmente è sempre esistito - oggi si aggiunge anche l’emarginazione prodotta dal trionfo di una tecnica percepita come incomprensibile e incontrollabile. Gli individui si sentono alienati socialmente e tecnologicamente in una realtà che appare priva di senso e di possibilità. Da qui il fascino dell’apocalisse che annulla tutto, un processo ineluttabile che non rimanda ad alcuna speranza. Da questo punto di vista le paure apocalittiche contemporanee sono anche più drammatiche di quelle del passato, che almeno avevano la prospettiva del giudizio universale».
Ma credere alla fine del mondo non significa tentare di razionalizzare l’irrazionale?
«Più che per l’apocalisse ciò vale per la catastrofe, che oggi viene razionalizzata attraverso la tecnica e la politica. La paura della catastrofe è diventata un discorso soggetto al dominio degli esperti. I tecnici profetizzano quotidianamente la catastrofe in ambito ecologico, economico, sociale, ecc. Così facendo, la razionalizzazione trasforma la paura della catastrofe in una categoria della mobilitazione. Si fissa un’agenda, un calendario e dei comportamenti che trasformano la paura in un discorso di legittimazione. In nome di un avvenire catastrofico, si giustificano le scelte politiche del presente».
La paura è diventata un dovere morale?
«Effettivamente, per Hans Jonas, il filosofo che ha molto contribuito all’affermazione del principio di precauzione e di responsabilità, di fronte all’invenzione nucleare che trasforma la fine del mondo in una predizione razionale e possibile, occorre rivalutare la paura come passione euristica. Aver paura è diventato un obbligo che alimenta la coscienza della nostra vulnerabilità e finitezza. Ormai, nell’immaginario dell’avvenire, la catastrofe si è sostituita al progresso. E il futuro ci appare solo come una minaccia. In questa prospettiva, la paura irrazionale dell’apocalisse può essere recuperata al servizio di politiche razionali. Il discorso della catastrofe oggi è diventato tecnicopolitico, mentre in passato era mistico-religioso. Il che è oggettivamente una novità del mondo contemporaneo».
Per altro l’idea di progresso era nata proprio come reazione alla fine di un mondo...
«E’ nata nel XVIII secolo come reazione al crollo dell’antico sistema di valori e conoscenze che fino ad allora aveva organizzato la realtà. Di fronte alla fine di quel mondo, si è affermata l’idea di progresso, una categoria della consolazione che non deve essere confusa con il progressismo. Per quest’ultimo il domani è necessariamente migliore dell’oggi, il che è evidentemente un’illusione, che oltretutto ha prodotto molti disastri.
Il progresso invece invita solamente a considerare il futuro uno spazio aperto al possibile. La fine di un mondo non è mai la fine del mondo. Di conseguenza, c’è sempre un qualche avvenire, anche se non sappiamo assolutamente come sarà. Anzi sarà quello che ne faremo. Non sarà necessariamente migliore del presente, ma comunque sarà aperto ad ogni possibile. Il che ci consola della perdita del mondo attuale».
E’ un’idea che va recuperata per combattere la paura dell’apocalisse?
«Non mi sembra che la paura possa essere l’unica forma di relazione nei confronti del mondo, anche perché ci imprigiona inevitabilmente in un’alternativa dove esistono solo l’apocalisse o la salvezza, il tutto o il niente, la fine del mondo o la preservazione del mondo così com’è. Occorre sottrarsi a questa alternativa, che di fatto implica l’impossibilità di trasformare il reale. Il mondo va trasformato e non solo conservato. Deve essere un orizzonte di possibilità. Solo così si supera l’ossessione della fine del mondo».
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