giovedì 13 dicembre 2012

Baudelaire, il riso viene dal diavolo


Il comico è figlio del peccato, senza il quale non ci sarebbe vita


Roberto Calasso

"Corriere della Sera", 12 dicembre 2012


Poiché ci troviamo in questi luoghi, dove Baudelaire commise il faux pas di presentare la sua candidatura all'Académie Française e Sainte-Beuve, per parlare di lui, fu costretto a sillabare il suo nome, mi sono domandato come mai è accaduto che, protetto appunto da quel nome, mi trovi oggi a parlarvi qui.
Guardando indietro, mi sono reso conto che da più di trent'anni sto scrivendo una anomala saga familiare (o «romanzo familiare» nel senso di Freud) dove i protagonisti sono non soltanto certi personaggi, ma certe parole, idee, immagini, gesti. Famiglia dispersa, nel tempo e nello spazio, in cui però certi legami sono rimasti molto stretti e uniscono l'India dei Veda alla Parigi del Palais-Royal. In questa saga fino a oggi si sono susseguiti sette libri, ma la storia non è ancora conclusa. In alcuni di questi libri la distanza fra gli argomenti di cui si parla è, secondo l'opinione comune, immane e invalicabile. Mai come nel caso di Ka, opera composta da miti vedici e indù, e del libro successivo, K., dedicato all'opera di Franz Kafka. Ma proprio questo caso può offrire una dimostrazione evidente di ciò che intendo: tutto K., infatti, è uscito, come il djinn delle Mille e una notte dalla bottiglia, da una singola frase di Ka. Dove si diceva che la differenza fra Prajapati e gli altri dèi vedici è simile a quella fra K., protagonista del Processo e del Castello, e i personaggi di Balzac o di Tolstoj.
Inoltre, come accade in altre saghe familiari, alcuni personaggi che in certe parti sono marginali in altre occupano il centro della scena e in altre ancora scompaiono del tutto. Baudelaire è uno di questi — e, percepibile dietro di lui, Chateaubriand. Verso la fine della Rovina di Kasch, che è il primo pannello di questo «romanzo familiare», si trova già Baudelaire, in una posizione strategica. E Chateaubriand contrappunta la prima parte, che si svolge nel periodo intorno alla Rivoluzione Francese. Venticinque anni dopo, giunti al sesto pannello, che è La Folie Baudelaire, Baudelaire diventa il perno attorno a cui ruota l'intero libro, dove inevitabilmente riappare Chateaubriand, primo dei dandies per Baudelaire. Ancora una volta, i personaggi si ritrovano, così come si ritrovano oggi, in occasione di questo premio, che tanto più mi onora in quanto unisce questi due nomi, Baudelaire e Chateaubriand, essenziali per me e per tutto ciò che ho scritto.
Quando ho cominciato a elaborare La Folie Baudelaire, mi era ben chiaro che non si sarebbe trattato di uno studio su Baudelaire, ma di un libro dove Baudelaire avrebbe fatto da guida attraverso i Salons della propria psiche e di quella di Parigi, nonché da navigante che segue con il suo battello quell'«onda Baudelaire» che attraversa tutto il secolo XIX e si infrange all'inizio del secolo XX, con la Recherche di Proust.
Non solo: al centro del libro non ci sarebbe stata un'opera di Baudelaire, ma un suo sogno — l'unico che abbia raccontato diffusamente. Ora, in quel sogno si riconoscono, uno per uno, con quasi dolorosa evidenza, tutti i fili con cui si è tessuta l'opera di Baudelaire. E il luogo dove il sogno si svolge, che è un imponente bordello-museo, a nulla somiglia come a una sorta di Palais-Royal trasportato in uno sconfinato intérieur, quasi che ormai la scena non potesse più essere il mondo esterno ma solo la psiche, che non ha confini, secondo la parola di Eraclito.
I sogni esigono di essere trattati con il massimo tatto. In questo caso per una doppia ragione: da una parte, perché quel sogno si rivelava essere il polo magnetico di tutta l'opera di Baudelaire e la cifra del suo destino di esibizionista involontario; dall'altra, perché riprendeva e variava l'immagine su cui sfocia la Rovina di Kasch: il Palais-Royal, «questo centro del caos di una grande città», secondo Restif, il quale elencò con voluttà tassonomica le specie variegate di filles che vi operavano, dalle «sunamites» alle «converseuses», spillandole con i loro nomi incantevoli: Boutonderose, sempre vestita di lino; Dorine, la filosofa, aria distinta, generalmente vestita di mussola su fondo rosa; Élise, «donna tagliata dalla Voluttà più che dalla Grazia»; Pyramidale, bella bruna; Sensitive; Amaranthe; Barberose — e innumerevoli altre (nel 1790 l'Assemblea Nazionale accolse una petizione delle duemiladuecento donne pubbliche del Palais-Royal).
Ma il Palais-Royal non ostentava soltanto questa folta popolazione femminile. Era il luogo dei gabinetti scientifici, dei caffè, dei libelli, dei complotti. Il luogo, scrisse Mercier, dove «un prigioniero potrebbe vivere senza annoiarsi mai e non pensare alla libertà se non dopo vent'anni». Nella Rovina di Kasch la sezione dal titolo Voci dal Palais-Royal si chiudeva con queste parole: «L'Occidente sognava di essere enciclopedia e bordello, palcoscenico e museo, Eden, politecnico, serraglio: una volta quel sogno si stava compiendo, nel Palais-Royal. Ma il sogno ebbe paura di se stesso. Ci accompagna, sospeso». Il bordello-museo era già presente e aspettava soltanto di entrare nel sogno di Baudelaire.
Ora, si dà il caso che Baudelaire abbia scelto il Palais-Royal come sfondo di una scena che è l'emblema stesso di uno dei suoi saggi più importanti e lungamente elaborati: De l'essence du rire. Le tenaci indagini di Claude Pichois hanno permesso di ricostruire la preistoria di questo testo, che Baudelaire stesso definiva una sua «ossessione» e che lo accompagnò per circa dieci anni, finendo per apparire in una oscura rivista della bohème letteraria l'8 luglio 1855, pochi mesi prima del sogno del bordello-museo, che è del 13 marzo 1856.
«Il Saggio non ride se non tremando»: questa massima ominosa, riconducibile a Bossuet, accoglie il lettore sulla soglia del saggio. E Baudelaire gioca su quelle parole, dicendo che potrebbero essere attribuite non solo a Bossuet, ma anche a Salomone, a Joseph de Maistre — «questo soldato meccanico dello Spirito Santo», definizione di fulminante efficacia — e persino a Bourdaloue, «lo spietato psicologo cristiano». In breve, Baudelaire vuole farci intendere che quella massima appartiene al tesoro di una antica sapienza, capace di percepire il mistero — e già per questo contrapposta all'epoca moderna, «per la quale nulla è difficile da spiegare, per il suo doppio carattere di incredulità e ignoranza».
Questo avvertimento solenne serve a far capire che il tema del comico è quanto di più grave ed elusivo il pensiero possa affrontare. Osservazione puntuale: da Aristotele a Freud, a Bergson, a Ferenczi, non si può certo dire che il comico sia stato illuminato in modo soddisfacente dal pensiero. E neppure il saggio di Baudelaire ci riesce. Ma il suo punto è un altro: segnalare che, trattando del comico, si entra subito in una zona di alto rischio, teologica e metafisica. Anzi, non ci si può neppure avvicinare al comico stesso se non si presuppone il dogma della caduta. Senza peccato originale non c'è pensiero, intima Baudelaire in ogni angolo della sua opera — e, se mai di progresso si dovrà parlare, sarà solo in rapporto a una possibile attenuazione delle tracce del peccato originale. Ma a questo punto, come negli esercizi spirituali di sant'Ignazio, occorre un'immagine, un luogo perché il pensiero prenda forma e si addentri in questi «arcani psichici», come Baudelaire stesso li chiama. E quel luogo sarà il Palais-Royal, dove si avventura, come «per caso, innocentemente», la Virginie di Bernardin de Saint-Pierre, colei che «simboleggia perfettamente la purezza e l'ingenuità assoluta» — e appare «ancora impregnata delle brume del mare e dorata dal sole dei tropici, con gli occhi pieni delle grandi immagini primitive delle onde, delle montagne e delle foreste». Nessun luogo più del Palais-Royal poteva essere adatto per turbare Virginie, per avvolgerla in «uno strano malessere, qualcosa che assomiglia alla paura».
Ma perché mai Baudelaire aveva sentito il bisogno di immaginare Virginie che cammina sotto i portici del Palais-Royal, quindi «in mezzo alla civiltà turbolenta, debordante e mefitica»? Perché la scena gli serviva per dimostrare il suo teorema teologico. Se il postulato, per Baudelaire, è che il comico sia «un elemento condannabile e di origine diabolica», occorreva osservare — come prova sperimentale — che cosa poteva accadere se a esso si esponeva colei che è il paradigma stesso dell'innocenza. Nel suo vagare Virginie finisce per trovarsi davanti agli occhi, sul tavolo di un vetraio, «una qualche immagine sporca, attraente e provocante, un Gavarni di quell'epoca, e uno dei migliori». A questo punto la prosa di Baudelaire ha uno stacco — e dalla psicologia si passa alla teologia: «Virginie ha visto; ora guarda. Perché? Guarda l'ignoto». Ciò che sta avvenendo sotto i portici del Palais-Royal è la scena primaria della conoscenza: il contatto con l'ignoto (e l'ignoto tornerà sempre in Baudelaire, fino all'ultimo verso delle Fleurs du mal). Quanto al «malessere» che ora invade Virginie, potrebbe anche avere un altro nome: conoscenza. Di quel contatto con l'ignoto alla fine qualcosa rimarrà, una traccia che è come una cicatrice: Virginie scoprirà il riso, che prima ignorava, ai tempi del suo idillio con l'altro innocente, Paul, «il cui sesso non si distingue per così dire dal suo negli ardori inappagati di un amore che si ignora» (parole che sono un picco di ironia camuffata). Ma a questo punto occorrerà tornare al teorema enunciato da Baudelaire sulla soglia della sua messa in scena di Virginie al Palais-Royal, che ne è la dimostrazione: «I fenomeni generati dalla caduta diverranno i mezzi del riscatto». Questa frase solenne e allusiva entra subito in risonanza con qualcos'altro in Baudelaire. Ma con che cosa? Si cercherebbe invano nei suoi scritti. La risposta — e la corrispondenza — si trovano nel sogno del bordello-museo, che culmina in un pensiero della cui «giustezza» — sempre nel sogno — Baudelaire stesso si compiace («Ammiro in me stesso la giustezza del mio spirito filosofico»). Il pensiero era questo: «Allora rifletto che la stupidità e l'insipienza moderne hanno una loro utilità misteriosa, e che spesso, per opera di una meccanica spirituale, ciò che è stato fatto per il male si volge in bene». Il sogno si rivela così essere innanzitutto l'applicazione del teorema che Baudelaire aveva enunciato nel saggio sull'Essence du rire.
Per quanto mi riguarda, sono occorsi venticinque anni perché trovassi conferma della «giustezza» di quella massima e finissi per svilupparla in un intero libro. Che si poneva, fra l'altro, la stessa domanda implicita nel sogno di Baudelaire: se il male va identificato con «la stupidità e l'insipienza moderne» e con tutto il loro apparato di «mania del progresso, delle scienze, della diffusione dei lumi», come mai il moderno ci affascina a tal punto, come mai Baudelaire stesso aveva voluto, in piena notte e con assoluta serietà, rendere subito omaggio con il dono di un suo libro alla maîtresse di quel bordello-museo che poteva essere considerato la casa-madre e l'epitome del moderno stesso?
Da allora la domanda è rimasta sospesa, anche se nel frattempo il moderno è diventato una categoria obsoleta. In ogni caso, però, nel pensiero elaborato da Baudelaire in sogno si toccava un punto cruciale. E, ancora una volta, era un punto già sfiorato nell'Essence du rire, dove si diceva che «l'elemento angelico e l'elemento diabolico funzionano in parallelo», sicché «l'umanità si innalza e acquista per il male e la comprensione del male una forza proporzionale a quella che ha acquistato per il bene». Parole che erano già un accenno, preciso e tagliente, a quella «meccanica spirituale» che si sarebbe manifestata nel sogno del bordello-museo.
La posta in gioco era alta, se è vero che in quelle parole si sottintendeva la vastità dilagante del male ma si implicava al tempo stesso che le porte del paradiso sono da sempre socchiuse. Però non si trovano là dove Adamo e Eva sono usciti dal giardino dell'Eden, bensì dalla parte opposta. Anche se nessuno ha lasciato detto esattamente dove. Un solo punto è sicuro: come scrisse Kleist, «dovremmo di nuovo mangiare dall'albero della conoscenza per ricadere nello stato dell'innocenza». Forse è vero, come Baudelaire afferma, che Virginie era «una grande intelligenza». Ma ignorava il riso. E i suoi amori con Paul suonano assai melensi. Mentre, insinuava ancora Baudelaire, «se Virginie rimane a Parigi e scopre la scienza, scoprirà il riso». Allora la Virginie che ride non sarà più l'eroina di Bernardin de Saint-Pierre, ma diventerebbe quell'essere femminile che Baudelaire chiamava «mon enfant, ma soeur» per invitarla nel paese che le assomiglia — e dove «tout n'est qu'ordre et beauté, / Luxe, calme et volupté».

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