Maurizio Bettini
"La Repubblica", 3 settembre 2013
Il liceo classico è in crisi? Visto il modo in cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, mi stupirei del contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche lavorano nei call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano: perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura” si è trasformata in una sorta di hobby al netto di oneri per lo stato, capace di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri “beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo “culturali”.
Certo è molto triste trovarsi nella condizione di dover giustificare la pratica della cultura umanistica proprio in Italia. Come minimo uno si domanda che fine faranno i suddetti “beni” in un paese che sta perdendo la sola dimensione all’interno della quale essi acquistano senso, ossia la relativa “memoria” culturale. A che serve restaurare il Colosseo se l’unica cosa culturale vagamente nota a chi lo visita saràIl gladiatore di Ridley Scott? Peraltro non credo che il Rinascimento a Firenze, con relativi Uffizi, o il Medio Evo a Siena staranno molto meglio dei monumenti classici. L’ignoranza è ignoranza, e non riguarda solo Roma antica. Dato però che continuare a ripetere queste cose è avvilente, è meglio voltare pagina e affrontare il problema da un altro punto di vista.
Il liceo classico, ossia una fra le migliori istituzioni di trasmissione culturale che possediamo, sconta al momento un doppio handicap. Da un lato quello che grava in generale sulla cultura umanistica, dall’altro un modo di insegnare le proprie materie più “classiche”, il latino e il greco, che spesso scoraggia i giovani dall’iscrizione. Perché mai un ragazzo in età da ginnasio dovrebbe volontariamente sottoporsi alla tortura delle declinazioni o della sintassi, senza vedere qual è lo scopo di tutto ciò? Non basta certo dirgli: così alla maturità, fra cinque anni, sarai in grado di fare bene la versione, perché perfino un quattordicenne si accorge del circolo vizioso. In altre parole, il paradosso del liceo classico sta nel fatto che, troppo spesso, non produce studenti che conoscono davvero la cultura classica, ossia quell’affascinante mondo in cui Odisseo incontra Ciclopi e Sirene o Socrate discute dell’amore. Un mondo tanto in continuità con la nostra cultura quanto diverso dall’esperienza contemporanea: e i giovani, checché se ne pensi, sono molto affascinati dalla diversità, anche quella degli antichi. L’elenco delle orazioni di Cicerone ha scarse probabilità di interessare un ragazzo di oggi (peraltro all’epoca interessava poco anche me), mentre so per esperienza che il discorso cambia se gli si fa ascoltare il racconto della morte di Didone. E soprattutto se lo si mette di fronte al paradosso di un eroe, Enea, che Virgilio chiama “pio” proprio perché abbandona la donna che ama per fondare la Città. Che cosa era dunque la “pietà” per i Romani? Erano così diversi da noi?
Per fortuna ci sono oggi licei classici in cui gli insegnanti, con la loro vivacità, riescono addirittura a far crescere le iscrizioni, fanno rappresentare ai ragazzi Euripide e Plauto, utilizzano i dizionari digitali o comunicano con gli studenti via Facebook. E posso testimoniare che gli oltre sessanta docenti di materie classiche che si sono riuniti a Siena in Agosto (!) per una Summer school, organizzata dal Centro Antropologia e Mondo Antico dell’Università con il sostegno (non solo economico) del Miur, sono stati capaci di suscitare un vero e proprio tornado di idee e di entusiasmi. Beati i loro studenti, viene da dire. Perché non è affatto detto che l’Italia sia esclusivamente il paese di Sanremo, del calcio edella mala politica culturale.
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