L’esibizionismo sui mezzi di comunicazione classici
è calmierato dalla consapevolezza di essere virtualmente sotto gli occhi di tutti
Ora invece la situazione è ambigua:
formalmente è una comunicazione tra amici, in sostanza fa il giro del mondo come un articolo del Nyt
Maurizio Ferraris
“Corriere della Sera”, 29 settembre 2013
I luoghi di dibattito minacciano lo status e la centralità dell’intellettuale pubblico È un misto tra la vanità e la legittima lotta per il riconoscimento di cui parlava Hegel
Ogni volta che compare un nuovo medium, gli intellettuali si dividono tra apocalittici e integrati (con una prevalenza dei primi), tranne poi, nel giro di una generazione o meno, diventarne degli addicted. È successo con i giornali, con le “gazzette” dileggiate da Leopardi e con il loro “vomitus matutinus” deprecato da Nietzsche. È successo con la televisione. E ovviamente succede con Twitter e altri social network. Il che, detto di passaggio, dimostra che abbiamo a che fare con mass media e non con semplici strumenti di comunicazione. Perché ovviamente l’intellettuale può essere portato, all’inizio, a prendersela con le armi da fuoco che distruggono la cavalleria, o con i telefonini che lo tormentano in treno, ma non vede né negli archibugi né nei telefonini una minaccia nei confronti della propria identità. Con i social network, come con i giornali e con la televisione, abbiamo a che fare con la creazione di luoghi di dibattito, che minacciano lo status e la centralità dell’intellettuale pubblico.
La minaccia è illegittima? No. A un certo punto, scrive Franzen nel lungo brano di The Kraus Project anticipato dal Guardian, «come ogni artista, Kraus voleva essere un individuo». Che è esattamente ciò che, con ogni evidenza, vogliono quelli che infaticabilmente alimentano i social network, ma ovviamente anche la stampa e la televisione. Chi scrive vuole essere un individuo ed esprimere le proprie opinioni. È quello che io sto facendo in questo preciso momento, è quello che fa Franzen con un successo ben maggiore, ed è quello che, il più delle volte gratuitamente, dunque anzitutto per ragioni identitarie, fanno certi autori di social network. E io, Franzen e loro abbiamo certo in comune la vanità, ma non solo, perché ci impegniamo in una attività legittima ed essenziale per l’essere umano: la lotta per il riconoscimento di cui parla Hegel nella Fenomenologia dello spirito.
La lotta può anche essere un duello. Di qui il tono aggressivo che manifesta una tipologia (minoritaria) che definirei “blogger nervoso”, che certo non è Rushdie o Coelho, ma è un intellettuale che non si sente abbastanza riconosciuto, e che potrebbe indirizzarsi allo scrittore affermato con un “ipocrita scrittore, mio simile, mio fratello”. Perché lo scrittore affermato è semplicemente quello che il blogger nervoso vorrebbe essere. E proprio come nella lotta hegeliana, il blogger nervoso mette a rischio qualcosa: non la vita, fortunatamente, ma spessissimo la faccia. Come insegnano le vicende ricorrenti di twittatori e postatori che, in un momento di distrazione, debolezza o esasperazione, o magari per un calcolo meditatissimo ma sbagliato, si lasciano andare ad affermazioni di cui potranno scusarsi in eterno, visto che scripta manent. L’esibizionismo sui media classici è infatti calmierato dalla consapevolezza di essere – almeno virtualmente – sotto gli occhi di tutti. Qui invece la situazione è ambigua: formalmente, è una comunicazione tra amici, o in un circolo ristretto. Sostanzialmente, ha le stesse possibilità di fare il giro del mondo di un articolo sulla prima pagina del New York Times.
Dunque ci sono molti motivi per non prendersela con i blogger nervosi, rischiando di sembrare uno di loro. Primo, nessuno ci obbliga ad andare su Facebook o a seguire qualcuno su Twitter, ci sono indubbiamente delle cose migliori da fare nella vita, fermo restando che, come sempre, ce ne sono anche delle peggiori. Secondo, è affrettato criticare qualcosa che oggi appare sregolato come una sorta di far west, ma che con il tempo auspicabilmente sarà in grado di perfezionare un’etichetta. Terzo, e soprattutto, i primi a rimetterci in un uso incauto del social network sono, come abbiamo visto, i blogger nervosi. Se le cose stanno in questi termini, il sentimento da riservare al blogger nervoso non è l’ira, il disprezzo o l’anatema, ma semmai la compassione. Più che il tono apocalittico di Kraus si adatta al blogger nervoso il giudizio di uno scrittore che ha dilapidato i suoi talenti, il Jep Gambardella di La grande bellezza: «È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile».
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