il lavoro degli uomini, lasciando ogni responsabilità alla natura.
Non è stato facile cambiare questo pregiudizio.
Poi, quel punto di vista, confermato da prove, documenti e testimonianze,
è diventato un'istruttoria processuale.
MARCO PAOLINI
“La Repubblica”, 22 settembre 2013
«In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona, non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo! Non uno di noi moscerini vivo se la natura si decidesse a muoverci guerra».
Queste parole le scriveva Giorgio Bocca su Il Giorno venerdì 11 ottobre 1963 e quell'articolo, bellissimo, così come quello di Dino Buzzati, lo stesso giorno, sul Corriere della Sera, così come quello di Indro Montanelli sulla Domenica del Corriere, erano sbagliati. Bellissimi ma sbagliati. La diga del Vajont, rimasta in piedi, sembrava assolvere, nello spirito di quel tempo, il lavoro degli uomini, lasciando ogni responsabilità alla natura. Non è stato facile cambiare questo pregiudizio. È stato quasi con fastidio che, gradualmente, si è dovuto fare i conti con il punto di vista di Tina Merlin, giornalista di Belluno che conosceva da tempo la vicenda per averla seguita in prima persona. Poi, quel punto di vista, confermato da prove, documenti e testimonianze, è diventato un'istruttoria processuale. Ma prima, per ragioni quasi offensive nei confronti delle vittime, la sede del processo sulle responsabilità della tragedia del Vajont fu trasferita da Belluno a L'Aquila, per legittima suspicione. Italo Filippin, sopravvissuto di Erto, racconta che per i «viaggi di giustizia» del 1968-'69, servivano circa tre giorni di corriera per fare i 900 chilometri che separavano le due città. I superstiti alloggiavano negli uffici del tribunale. Per risparmiare, certo, ma anche perché nelle poche stanze d'albergo disponibili a L'Aquila dormivano avvocati e giornalisti.
Era grande la distanza tra Belluno e L'Aquila. Eppure le spirali degli eventi oggi ne avvicinano i destini. Negli ultimi anni abbiamo visto le due città accostarsi, più per carattere che per figura, anche se, dopo il terremoto, L'Aquila non è più una città, ma un'aspirazione usurata dalla frantumazione imposta con decreti d'emergenza.
L'atteggiamentodella società civile nei confronti della tragedia del Vajont e del terremoto a L'Aquila è differente. Il tempo, oltre che i chilometri, separa i due eventi. Ma a me interessa qualche elemento che invece li accomuna. Per capirli guardiamo i processi di primo grado de L'Aquila: quello cominciato il 29 ottobre 1968 e quello conclusosi il 22 ottobre 2012.
Alla sbarra, nel primo processo: dirigenti, tecnici e consulenti della diga del Vajont. Nel secondo: dirigenti, tecnici e consulenti, membri della Commissione grandi rischi della Protezione civile per il terremoto a L'Aquila del 6 aprile 2009.
Come i grandi giornalisti, forgiando l'opinione pubblica nel 1963, offrivano giustificazioni ai responsabili della tragedia del Vajont, così la comunità scientifica, nel 2012, scomodava persino Galileo e il suo famoso processo per eludere giudizi sull'operato dei propri componenti. La comunità scientifica mal sopporta valutazioni sull'operato dei propri membri da parte della giustizia, si sente incompresa e reagisce come per lesa maestà, negando le accuse.
Non ho nessuna autorità per fare valutazioni su competenze altrui, ma il coro di proteste per una sentenza che metteva pesantemente in discussione l'operato «della scienza», con gli appelli al sostegno internazionale, gli articoli, anche in questo caso bellissimi, di acuti giornalisti, fino all'appello al presidente della Repubblica, scritti dall'inizio di quel procedimento e prima ancora di conoscere i fatti contestati, non mi hanno dato solo fastidio, mi hanno preoccupato e intristito perché sembravano così simili a quanto è successo al tempo del Vajont.
Per contro, è anche vero che molte cose sono cambiate da quel 1968: la nostra idea dell'uomo e della natura, la consapevolezza dei diritti. Oggi le vittime a volte si vendicano. Nei confronti di alcune auctoritas le parti si sono rovesciate. Un esempio: sempre meno i giovani medici scelgono chirurgia, perché è la specializzazione più esposta a cause civili. I pazienti che si sentono danneggiati dagli interventi sempre più spesso denunciano i chirurghi. Per reazione provo istintiva solidarietà verso chi ha ancora il coraggio di continuare a svolgere con dignità e competenza quelle professioni. Dopo il Vajont, sull'onda dell'«indignazione popolare », per molti anni nessuno ha più costruito una diga in Italia. Non fare non è la soluzione, serve solo a far dimenticare in attesa di ricominciare come prima. Ma se provassimo a ragionare a mente fredda, invece che sull'onda delle emozioni, davanti alle catastrofi potremmo cominciare a vedere responsabilità collettive che prima o poi arriverebbero fino a noi stessi, che magari siamo lontanissimi dai luoghi delle catastrofi. Siamo sempre così prevenuti che finiamo per attribuire responsabilità a intere categorie di politici, di tecnici, di scienziati. Ma non siamo mai disponibili a riconoscere una nostra parte di colpa.
La storia del Vajont è un esempio di come non si devono calcolare i rischi, di come non si devono gestire le emergenze in tutta la catena di comando e nelle istituzioni preposte al controllo. Raccontarla è stato un esercizio di educazione alla prevenzione. In qualche caso è successo. Il racconto del Vajont, per esempio, ha aperto gli occhi a molti studenti di geologia che nei loro testi scolastici trovavano la frana del Toc descritta e trattata in modo asettico, senza alcuna domanda imbarazzante sul ruolo subalterno della geologia all'ingegneria, vera protagonista dell'impresa di progettare e realizzare a ogni costo la diga ad arco più alta del mondo, in una gola ai piedi di una montagna chiamata Toc, cioè pezzo, frammento, scheggia.
Una possibilità di comprendere le nostre responsabilità è aprirsi alle ragioni di tutti. Ho sempre cercato di mettermi nei panni proprio di quei tecnici che hanno progettato la diga, anche nell'aula del processo. Si chiama pietas.
È una pratica antica: senza pietas verso gli imputati non si può comprenderne l'errore, il loro errore. Senza comprendere le ragioni degli imputati abbiamo solo dei colpevoli, criminali, gente "diversa" da noi. È molto rassicurante. Ma solo comprendendo gli errori degli imputati possiamo evitare di ripeterli. Gli imputati, quando ammettono l'errore, specie quando assume la dimensione della tragedia, tendono a ridimensionare il proprio ruolo, giustificandosi con gli
errori altrui. La "società civile" non deve comportarsi nello stesso modo. Comprendere — che non significa giustificare — condividere, è l'unica strada. Anzi: la pietas, la comprensione, offrono la possibilità di sottrarsi alla giustificazione consolatoria, di scongiurare anche le forme più subdole di condivisione.
Il processo di primo grado per la catastrofe del Vajont finì il 17 dicembre del 1969 con condanne lievi rispetto alle richieste. Il tribunale riconobbe il reato di omicidio colposo per il mancato allarme alla popolazione, ma non riconobbe la prevedibilità della frana. E invece una lunga serie di accadimenti mostrano come la frana fosse studiata, osservata, temuta da anni. Non si poteva sapere a che ora di quale giorno della settimana l'ultimo filo d'erba che la teneva su si sarebbe rotto, ma da settembre '63 si capiva che era questione di poco.
Il processo alla Commissione grandi rischi de L'Aquila si conclude con una sentenza che accusa i componenti di negligenza, imprudenza, imperizia, valutazione approssimativa e generica della portata dell'evento...
Per aver fornito informazioni incomplete e contraddittorie... alla cittadinanza aquilana... si legge a pagina 25 della motivazione. La sentenza quindi non accusa gli imputati per il mancato allarme, come nel caso della sentenza sul Vajont, perché i terremoti, a differenza delle frane, non sono prevedibili. La Commissione è stata accusata di aver fornito informazioni rassicuranti, con esito disastroso. La sentenza dice, sulla base delle prove e testimonianze ammesse, che senza quelle rassicurazioni alcune di quelle persone non sarebbero morte.
Gli aquilani si erano abituati a convivere con il terremoto, quando anche quella notte la terra tremò una prima volta non uscirono di casa, erano meno spaventati perché i dottori venuti a visitarli li avevano rassicurati. Immagino lo sconcerto, l'incredulità e anche la buona fede di chi, facendo lo scienziato o il tecnico, si trova addosso un'accusa di omicidio. È vero che le case non erano antisismiche, che ognuno dispone del suo comportamento, che nessuno è stato obbligato a non uscire di casa ma, anche se è dura da digerire, questa sentenza entra nel merito di una responsabilità condivisa, ci racconta di come le nostre decisioni siano influenzate da chi riteniamo esperto, autorevole, responsabile. Parla e mette in discussione il ruolo sociale della scienza.
Il primo pensiero dopo la sentenza de L'Aquila, che accusa la Commissione di aver sbagliato la comunicazione del pericolo, è: ma la Commissione grandi rischi dovrebbe essere uno strumento di valutazione, non di comunicazione, dovrebbe fornire, a chi ha la responsabilità e il ruolo, gli argomenti per decidere. Perché allora chiedere a tecnici e scienziati di «comunicare»? Perché esporli alle domande dei giornalisti, al «circo mediatico»?
Vediamo brevemente come sono andate le cose. L'Aquila da quattro mesi era investita da uno sciame sismico culminato in una scossa più forte il 30 marzo 2009. Per dare una risposta alla paura e alle domande dei cittadini fu organizzato questo consulto di luminari al capezzale del malato. Per dirla brutalmente: l'impressione, più che di un esame su un problema grave, è piuttosto, appunto, di una messinscena mediatica: la riunione durò meno di un'ora, e fu chiaramente condizionata dalla fretta di rientrare a Roma, dalla carenza di elementi per esprimere valutazioni scientifiche. Ma soprattutto è come se l'esito del consulto fosse predeterminato: bisognava rilasciare interviste. Bisognava comunicare ai cittadini l'assoluta «mancanza di relazione tra lo sciame sismico in corso ed eventuali forti scosse a venire ». E questa affermazione, si deve ammettere,
ha una base scientifica, ma non il corollario che fu aggiunto e cioè che più scariche di energia facevano il terremoto meno probabile, allontanavano l'eventualità di una forte scossa. Questa fu una rassicurazione disastrosa, afferma la sentenza.
Ecco: andrebbe raccontata minuziosamente la storia di quel rischio per capire bene le questioni che abbiamo di fronte oggi e che,
in nuce, si intravedevano negli anni Sessanta, ai tempi del Vajont. Le questioni sono il crescente dominio dell'informazione e del ruolo degli scienziati in un mondo in cui la realtà la fanno gli uffici stampa piuttosto che i tecnici e gli studiosi. E infine, in questa complessità, il ruolo dei politici.
In un'intervista a un giornale italiano, due veterani della comunicazione del rischio, Peter Sandman e Jody Lanon, pur auspicando, in una loro intervista precedente alle sentenze, l'assoluzione degli imputati, osservavano criticamente: «Gli scienziati non sanno comunicare; quando parlano tra loro tendono a enfatizzare le loro lacune di conoscenza, quando parlano in pubblico spesso danno l'impressione di sapere tutto». Allora voglio cominciare a proporre una parola: equilibrio. Ho l'impressione che in tutta questa faccenda, come nella vecchia storia del Vajont, quello che è mancato sia l'equilibrio tra dubbi e certezze. L'equilibrio è indispensabile alla comprensione. E la misura della capacità di comprendere la questione la fornisce uno degli illustri membri della Commissione grandi rischi che, dopo la condanna, in un'intervista affermò: «Non ho ancora capito per cosa sono stato condannato».
Erano più o meno le stesse parole con cui un geologo del Vajont, Edoardo Semenza, figlio di Carlo, il progettista della diga, mi rimproverava il 9 ottobre del '97. Mancavano due ore alla diretta televisiva del Racconto del Vajont, e, mostrandomi le sue pubblicazioni sulla frana, cercava di dimostrare che era lui che aveva capito tutto da subito e non l'altro geologo, Müller. Cercava di farmi capire i suoi meriti. Gli chiesi: «Ma si rende conto che dicendomi questo lei afferma di aver previsto in anticipo e di non aver fatto nulla per impedirlo? Avrebbero potuto condannarla per questo». Mi guardò come fossi un ingenuo: «Non capisco in che senso lo dice, io quelle cose le avevo scritte, perché avrei dovuto essere condannato?».
Tutti i condannati de L'Aquila si sentono offesi dalla sentenza, e non la capiscono. Ma proprio questo è il punto. Le comunità scientifiche dovrebbero permettere che si giudichino i propri membri. Non dovrebbero comportarsi come famiglie massoniche. E noi, noi cittadini, voglio dire, abbiamo il dovere di pretendere che gli scienziati non facciano abuso di ruoli e di auctoritas per vendere pacchetti preconfezionati di notizie e opinioni a buon mercato. Chi non lo fa merita grande attenzione e rispetto. Non si pretende che tecnici e scienziati rinuncino a prestigiosi incarichi di consulenza. Abbiamo bisogno della loro competenza. Ma proprio per questo chiediamo loro di ragionare da scienziati sempre, anche quando provano ad aiutarci a capire. Questo si può pretendere.
Quello che serve è un'altra cultura, con regole non scritte di cittadinanza. Regole fondate su una giustizia non punitiva ma riparatoria. La punizione dei chirurghi, come di geologi, di sismologi e di ingegneri, serve solo da deterrente alla conoscenza, serve a scoraggiare le imprese. Ma non possiamo rinunciare alla riparazione, che passa attraverso la comprensione profonda degli eventi, attraverso la definizione di realtà condivise, in equilibrio tra concretezza empirica e comunicazione. In definitiva: chiedere agli scienziati di tenere in ordine questo Paese non si può proprio fare. Siamo tutti un po' responsabili della cura del nostro Paese. Non serve cercare responsabili per consolarci e assolverci. Tocca anche a noi.
A noi stessi dobbiamo chiedere di più e aspettarci di meno: di spalare la neve davanti a casa nostra e anche un po' più in là, di segare l'erba, perché un Paese fatto al settanta per cento di montagne non può che affidare la sua manutenzione a chi decide davvero di abitarlo. Anche perché prendersi cura del territorio costerebbe molto meno che rimediare ai disastri dell'incuria.
La differenza tra l'atteggiamento dei grandi giornalisti che guardavano l'evento a tragedia avvenuta e Tina Merlin, l'umile cronista locale, è che lei — una donna guarda caso — si era presa cura della storia, in prima persona, contro tutto e contro tutti. Se n'era occupata fino a diventarne parte.
Sembrerà poca cosa rispetto alla dimensione delle catastrofi, ma il senso di un anniversario, perché il 9 ottobre del 2013 sono cinquant'anni della tragedia del Vajont, è prendersi cura dei vivi almeno quanto ricordare i morti. A Erto, a Longarone, a L'Aquila ci sono due vite, non sono così distinte, ma un modo di vivere finisce con le ultime generazioni che sanno ancora prendersi in carico la manutenzione di una porzione di territorio.
Appaiono anacronistici come ogni specie in via di estinzione, ma non lo sono.
© 1997, Garzanti Editore s. p. a., Milano © 1999, 2013, Garzanti Libri S. r. l, Milano
Ricordo bene quando è successo il Vajont, abitavo a Castello-Venezia, avevo nove anni ed ha oscillato per parecchio il lampadario del salotto...mia madre ha pensato al terremoto..
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