Pablo Picasso, L’ombra (1953), olio su tela, 130 x 97cm, Musée National Picasso, Parigi |
Melania Mazzucco
“La Repubblica “, 15 settembre 2013
Un pittore può entrare nel suo quadro in molti modi. Col nome: la firma — posta in un cartiglio o sul bordo, evidente o occultata nella scena dipinta — lo legittima, assegnandogli un padre creatore. Con la figura: inserendo il proprio autoritratto, il pittore rivendica la sua funzione di testimone nella storia e la sua presenza di artefice. Con un segno: una traccia, anche cifrata, della sua identità individuale. Picasso è tornato più volte sul motivo del rapporto fra creatore e opera e alla fine ha firmato con l’ombra. Anche l’ombra è una traccia: l’impronta dell’incontro di un corpo con la luce.
L’ombra sembra uno dei quadri più semplici dello sterminato catalogo di Picasso: ne conosciamo genesi, circostanze e significato. E’ un’immagine quasi tradizionale, costruita con pochi colori: l’interno di una stanza, con una finestra da cui s’intravede il cielo azzurro. La luce irrompe in un ambiente oscuro, dove c’è una figura femminile, distesa. L’erotismo implicito nella presenza della modella nuda è rivelato dalle dimensioni dei suoi seni (più grandi del volto) e della mano enorme, prensile, bestiale. Qualcuno si pone davanti alla fonte di luce. Ne vediamo solo l’ombra — una sagoma maschile, una piatta silhouette che sembra ritagliata con le forbici. Tecnicamente è difficile dipingere un’ombra senza renderla un’informe macchia grigia: per questo i pittori l’hanno sempre considerata con sospetto. Picasso dipinge l’ombra nera. E’ quella che scientificamente si definisce “ombra portata”: cioè non aderente al soggetto che la proietta. Questo soggetto, da cui è separata, rimane fuori dal quadro. Ma ne invade lo spazio con lo spettro.
Chi è?
Forse lo spettatore, cui Picasso restituisce il ruolo di voyeur che l’arte occidentale gli ha assegnato per secoli — almeno nella visione di un quadro con lo stesso soggetto di questo: la Nuda in una stanza. Ma la stanza del quadro, ha spiegato Picasso in un’intervista, è quella della sua casa di Vallauris, nel sud della Francia. Sulla mensola si riconosce un carretto siciliano, da lui acquistato durante un viaggio, sul camino un vaso di ceramica, sul pavimento un tappeto. Dunque l’Ombra è quella del pittore stesso. E’ Picasso che guardala scena. E’ come se volesse farci vedere ciò che lui vede — mettere lo spettatore al suo posto. Nei quadri cubisti di quasi cinquant’anni prima, aveva moltiplicato i punti di vista nella rappresentazione dell’oggetto, scomponendolo. Ma stavolta predilige il suo. Nel linguaggio cinematografico, sarebbe una ‘soggettiva’. E’ un autoritratto al negativo, dunque — ma singolare. Per convenzione, la mano del pittore è il suo segno. Invece l’ombra non ha mani. L’immagine è una sorta di riflesso mentale.
Guardando meglio, ci si accorge che la donna non è davvero presente nella stanza. E’ un ricordo, o un sogno. Bianca, come l’ombra del pittore è nera, marca un’opposizione fra idue, il colore e la forma sigillano una differenza di temperatura e consistenza — le due entità sono reciprocamente inafferrabili.
Françoise Gilot raccontò che nel momento in cui Picasso dipinse L’ombra — fra il Natale e il Capodanno del 1953, forse in un solo giorno — la donna, cioè lei, era assente, per una separazione che ormai era divenuta definitiva. Ma anche se lo ignorassimo, è il quadro che ce lo dice: non vi è nessun contatto fra l’ombra e il corpo, l’uomo e la donna. Le ombre non possono avere rapporti con le cose e le persone. Sono inerti, immateriali. Il quadro parla di solitudine, di perdita, di assenza.
Ma soprattutto parla d’arte. E’ stato notato che L’ombra ricorda Matisse: il Violinista alla finestra nella struttura dell’immagine, la serie delle Odalische nella figura femminile nuda distesa. E l’ombra cita le guaches découpées che Matisse ottantaquattrenne andava creando nel letto dove giaceva immobilizzato. Matisse aveva detto che lui e Picasso erano come il Polo Nord e il Polo Sud. Lui era il nord: tradizione, intelletto, colore; Picasso il sud: genio, linea, disegno. Matisse francese, borghese di estrazione e d’animo, fautore di un’arte edonistica, riposante e impersonale; Picasso straniero, andaluso, bohémien, genio precoce che aveva imparato a disegnare prima che a parlare, sedotto dalla scultura primitiva e dagli idoli africani, creatore di un’arte onnivora, autobiografica, irriverente, disturbante. Si frequentarono, si sospettarono, si ammirarono, si studiarono per tutta la vita (ognuno teneva nel proprio studio almeno un capolavoro dell’altro). Si detestavano, anche. Matisse accusò Picasso di essere un bandito: in sostanza un ladro, che si appropriava delle idee altrui (e in particolare delle sue). Picasso era d’accordo: diceva che ogni pittore è un collezionista che raccoglie le immagini degli altri e le rende proprie, che anzi deve prendere ovunque sia possibile, e considerava degradante copiare solo da se stesso. Picasso vedeva in Matisse il suo negativo. Per questo è possibile che L’ombra sia davvero un omaggio di Picasso al suo rivale — ormai alla soglia della morte.
Ma non è solo un dialogo con l’amico-nemico di una vita. E’ anche una riflessione sulla propria pittura. L’ombra del pittore non si proietta infatti nella stanza della sua casa. Ma su un suo quadro che raffigura la stanza della sua casa. Picasso guarda se stesso — la sua vita e la sua opera. E la ripensa nel contesto della tradizione. Non ha mai smesso di confrontarsi con essa — per innovarla. Sapeva che la pittura occidentale origina dall’ombra. Lo racconta Plinio: Dibutades, figlia di un vasaio di Corinto, disegna sul muro il profilo dell’ombra dell’amato, prima che parta per sempre. Questo mito, accolto e interpretato per quasi due millenni da tutti gli storici dell’arte, inaugura una storia della rappresentazione che nel 1953 — anche se è sul punto di collassare — non si è ancora interrotta. Picasso, tra i principali artefici della rivoluzione artistica del XX secolo, la rivitalizza. La figurazione non è morta. E neanche l’artista: la sua ombra è ancora lunga. Però quel fantasma nero trasmette un’arcana inquietudine. Picasso, che si era infatuato dell’arte tribale, non ignorava che nelle credenze ancestrali e nel pensiero magico l’ombra è associata all’anima — di cui è immagine (forma visibile) o residuo (dopo la morte). Dunque per noi posteri l’ombra nera di Picasso potrebbe essere anche la malinconica cicatrice di un’assenza. Un buco nella luce. Il profilo sul muro di un amato scomparso, il contorno di un cadavere. Nel XXI secolo l’arte crede di non avere più bisogno di pittori.
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