II «De rerum natura» è un inno alla ragione alla libertà, all'amore per la conoscenza
(e non solo).
Andrebbe letto in tutte le scuole
Carlo Rovelli
“Il Sole 24 Ore “, 15 settembre 2013
Quanti segreti diversi possono celarsi nella poesia più grande? Nel 1417 l'umanista fiorentino Poggio Brecciolini scova una copia del De rerum natura, lo straordinario poema di Lucrezio dimenticato da millenni, in un monastero tedesco; ma non immagina certo l'influenza che il piccolo testo consunto che teneva fra le mani avrebbe avuto. L'ampiezza di questa influenza sul Rinascimento italiano ed europeo e sull'intera crescita del mondo moderno è ricostruita da Stephen Greenblatt, uno dei principali attori del "nuovo storicismo" nella critica letteraria anglosassone, in The Swerve: How the World Became Modern (vedi Alessandro Schiesaro, «Noi, moderni grazie a Lucrezio», pubblicato la « Domenica» del 4 dicembre 2011; il volume è poi uscito in italiano per Rizzoli, ndr). Una visione del mondo che era stata spazzata via dall'assolutismo monoteista medioevale si riaffacciava su un'Europa nuova. Non sono solo il naturalismo, il razionalismo e il materialismo di Lucrezio che si ripropongono all'Europa. Non è solo una lucente e serena meditazione sulla bellezza del mondo e la possibilità di accettare serenamente la morte. È molto di più: una struttura di pensiero articolata e complessa per pensare la realtà, un modo nuovo e radicalmente diverso da quello che era stato per secoli il pensiero del Medioevo. Il cosmo medioevale, così meravigliosamente cantato da Dante, era un'organizzazione spirituale e gerarchica dell'universo che specchiava la società europea; cosmo centrato sulla Terra, separazione irriducibile fra Terra e Cielo, spiegazioni finalistiche e metaforiche di tutti i fenomeni, timor di Dio e della morte, l'idea che forme eterne precedenti alle cose dettino la struttura del mondo. l'idea che fonte della conoscenza possano essere solo il passato, la rivelazione e la tradizione. Non c'è nulla di tutto questo nel mondo di Lucrezio. Non c'è timore degli dèi, non ci sono scopi o cause del mondo, non c'è gerarchia cosmica, non c'è distinzione fra Terra e Cielo; c'è amore profondo perla natura, immersione serena in essa, riconoscimento che ne siamo parte, che uomini, donne, animali, piante e nuvole sono tasselli organici di un tutto meraviglioso e senza gerarchie. C'è un sentimento di profondo di universalismo. C'è l'ambizione di poter pensare il mondo in termini semplici. Di poterne indagare e spesso comprendere i segreti. Di poter sapere di più di quello che sapevano i nostri padri. Ci sono gli strumenti concettuali sui quali costruiranno Galileo, Keplero, e Newton: l'idea del moto libero e rettilineo nello spazio, l'idea di corpi elementari, gli atomi, che con le loro combinazioni intrecciano la complessità della realtà, l'idea dello spazio come contenitore del mondo. E soprattutto c'è un'accorata e appassionata difesa dell'idea che la vita può essere serena anche se è limitata, che non dobbiamo temere la morte, proprio perché non esiste nulla dopo la morte.
Che non dobbiamo temere Dio, perché quand'anche esistesse avrebbe ben altro di cui occuparsi che non di noi, granelli irrilevanti in un cosmo sconfinato. L'eco di tutto ciò risuona diretta nelle pagine di autori che andranno da Galileo a Keplero, da Bacone a Machiavelli, da Montaigne, che cita Lucrezio almeno un centinaio di volte, fino a Newton, Dalton, Spinoza, Darwin, e perfino Einstein. A renderci accessibile e illustrare questo grande pensiero esce in questi giorni un bellissimo libro di Piergiorgio Odifreddi, che consiglierei a tutte le scuole italiane di adottare come testo di lettura e discussione: una versione in prosa leggibilissima del poema di Lucrezio (nelle pagine dispari) e un esteso commento (nelle pagine pari), entrambi colti, scanzonati e intelligentissimi. Si intitola Come stanno le cose, il mio Lucrezio e la mia Venere e colpisce per la felice originalità, anche editoriale, dell'operazione. I commenti di Odifreddi non sono note al testo, ma riprendono e ampliano i temi trattati da Lucrezio, dalla prospettiva del sapere accumulato nei venti secoli trascorsi da quando il poeta romano componeva il suocanto, e alla luce della scienza moderna, dove Lucrezio si trova sorprendentemente a casa sua, Odifreddi illustra con esempi e leggerezza la lettura razionale del mondo, esattamente come fa il testo di Lucrezio, e ripropone in forma contemporanea i grandi terni che animano la visione Lucreziana: l'amore per la natura, sola artefice di ogni cosa, la fiducia nella ragione che ci permette, passo a passo, di comprenderla, e che ci rasserena dalle paure irrazionali della morte e della religione.
Odifreddi ci restituisce, vivificato e pieno di luce, questo grande Lucrezio che ha fatto da tramite fra l'atomismo greco e noi, ed è per questo una delle radici culturali più profonde e vitali del mondo moderno.
Ma c'è tutto? Accanto al testo di Odifreddi ho riletto in questi giorni un penetrante libretto pubblicato nel 1929 da Vittorio Enzo Alfieri e intitolato semplicemente Lucrezio. Qui, sorpresa, la lettura del poema e del poeta è opposta a quella di Odifreddi. Alfieri fu allievo di Benedetto Croce, filosofo, accademico, perseguitato dal fascismo. Sospettato di aver partecipato al fallito attentato al re a Milano nel 1928, fu nel carcere di San Vittore insieme con Ugo La Malfa e Umberto Segre. Quanto il Lucrezio di Odifreddi rispecchia la serenità della ragione, il Lucrezio di Alfieri è romantico e tormentato. Alfieri è cieco allo splendore di pensiero che Odifreddi sa restituirci, alla chiarezza concettuale e alla vasta intelligenza della limpida lettura lucreziana del mondo. Ma vede altro. Sente il canto del poema, la poesia meravigliosa e assoluta della natura e delle passioni dell'animo di Lucrezio, la sua sensibilità delicatissima. Con prosa appena un po' antiquata, ma efficace, Alfieri ci accompagna per mano e ci svela, verso dopo verso, la bellezza struggente del poema, ce ne indica il ritmo segreto, la musica ora immensa ora intima, e decifra i trasalimenti del cuore del poeta. E nella passione di Lucrezio per la ragione, lui legge una disperazione segreta e profonda. Il canto di Lucrezio ci mostra la sciocchezza degli uomini, l'inutilità della vita, l'assurdità delle illusioni consolatorie, si attarda a lungo, molto a lungo, sulla morte, si chiude con la descrizione realistica e cruda dell'orrore della peste di Atene, «dolorose carte del poeta della vita serena».
L'appassionata dichiarazione di fede nella possibilità della serenità della vita, è letta da Alfieri come l'anelito accorato di un uomo che ha sofferto. Riprendendo una (poco credibile) tradizione secondo cui Lucrezio sarebbe morto suicida impazzito per un filtro d'amore, Alfieri legge il suicidio del poeta come l'eroica resistenza della ragione che sceglie l'ultima strada di dignità, per non cedere al dominio di quel mare nero che Conrad ci fa intravedere dietro la trama del reale. Il Lucrezio di Alfieri è un gigante romantico, spinto da una eroica ribellione, per l'uomo, contro le sciocchezze della religione e le illusioni dell'amore, che vuole offrire a se stesso e a noi tutti una via di sapienza e serenità, ma crolla perché la natura, prima che madre è, come per Leopardi, matrigna, e perché le passioni del cuore sono più forti della serenità del pensiero.
Chi ha ragione? La disincantata serenità di Odifreddi, che ride degli dèi, o il torbido romanticismo di Alfieri, che trema di emozione alla poesia di Lucrezio? Forse entrambi. C'è tutto questo in Lucrezio, poeta immenso, e altro ancora. Ma quello che interessa a noi, e credo, agli adolescenti, non è chi fosse Lucrezio, è la vita. Fin dove arriva a capire la nostra ragione? Ci salva dai mostri che stanno dentro di noi? O dobbiamo rinunciare alla lucidità per avere consolazione? Possiamo farci incantare dalla comprensione della realtà e insieme travolgere dalla sua poesia? Possiamo cercare la luce del pensiero senza renderci miopi all'inflnita complessitàd i quello che accade dentro di noi? E ci è madre o matrigna la Natura? Ci conduce alla disperazione di Leopardi la lucidità del naturalismo? O alla serenità dove ci invita Lucrezio? Capire rende liberi? La fine del quarto libro del De Rerum Natura è la descrizione più dissacrante e selvaggia dell'amore che mai sia stata scritta. L'amore è riportato alla sua più brutale sorgente fisica. Denique cum membrìs conlatis flore fruuntur/aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus/ atque in east Venus ut muliebria conserat arva/adfigunt avide corpus iunguntque salivas/ oris et inspirant pressantes dentibus ora,/ ne quiquam, quoniam nihil inde abradere possunt/ nec penetrare et abire in corpus corpore toto. Lascia senza fiato. Eppure lo stesso Alfieri, esterrefatto, riconosce che raramente si è andati così vicini alla essenza dell'amore, al suo strazio, alla sua sete. Nel momento stesso in cui più lo scarnifica, più Lucrezio si avvicina a coglierne l'essenza indicibile. È questo amore invincibile che ha ucciso Lucrezio, per Alfieri. Eppure è la stessa voluttà che apre il poema e lo pervade di gioia. O Venere, o voluttà, tu sei la primavera il sole l'amore la fecondità degli animali e della terra; ove tu vieni fugge l'inverno, la tristezza, la morte... per te ridono le ampie distese del mare e il cielo rasserenato risplende di luce infinita. Lucrezio ci mette di fronte alla realtà, in tutta la sua complessità. La disperata malinconia della vita, la gioia luminosa, la sterminata visione del cosmo, lo struggente lirismo, la contemplazione e la comprensione della natura, la voglia sempre di capire. Perché non leggere questo poema così vivo nelle scuole italiane? Parlerebbe forse agli adolescenti di quello accade dentro di loro. Noi ci muoviamo in tondo, sempre nello stesso punto ... il nostro appetito di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile. C'è tutto: atomi e cosmo, l'invisibile e i campi, l'ambizione, l'infelicità, la noia, la religione, i timori, la morte e la serenità davanti alle tragiche domande degli uomini di fronte alla morte, e un turbinio di vita cosmica ovunque, dalla danza del pulviscolo dentro un raggio di sole, alla dissoluzione del mondo negli coni futuri. Perché non dare ai ragazzi entrambe queste opposte letture, e lasciare loro, alla generazione che ci seguirà, l'invito a cercare di risolvere quello che noi, ancora, non abbiamo risolto?
Vittorio Enzo Alfieri, Lucrezio, Le Monnier, 1929, pagg. 222, sip.
Stephen Greenblatt, The Swerve: How the World Became Modern, W.W. Norton, New York, pagg. 368
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