domenica 15 settembre 2013

Le tre parlate di James Joyce: inglese, italiano e triestino


STUDI UN DOCUMENTATO SAGGIO DI FRANCO MARUCCI, 

EDITO DA SALERNO, DELINEA IL PROFILO DELL'AUTORE
Padroneggiava la nostra lingua e nelle lettere usava il dialetto


Dario Fertilio 

                                       "Corriere della Sera", 2 settembre 2013

Joyce scrittore pienamente bilingue, inglese e italiano. O forse addirittura trilingue, se si include l'uso perfetto del triestino in ambiente domestico e nella corrispondenza, al punto da saperlo deformare ironicamente secondo la parlata slava. Joyce che avrebbe potuto comodamente battere sul tempo il suo concittadino Samuel Beckett, il quale negli anni cinquanta cominciò a scrivere anche in francese e ad autotradursi. Joyce in possesso di una specie di mozartiano «orecchio assoluto» per le lingue, in grado di esibirsi in varianti, modulazioni, motti di spirito e citazioni del tutto autonomi dall'inglese. Joyce che, non fosse morto a 59 anni, anziché intraprendere una nuova e ancora più avveniristica opera lunga, avrebbe tradotto in italiano quelle già scritte, forse anzitutto La veglia di Finnegan prima dell'Ulisse.
Sono molte le suggestioni intorno al grande scrittore irlandese - ma forse dovremo cominciare a definirlo «dublinese-triestino» - che lo studioso Franco Marucci, anglista dell'università veneziana di Ca' Foscari, evoca nel suo Joyce (Salerno, pp. 312). E l'interesse del saggio sta nella scrupolosa documentazione con cui l'autore corrobora le sue tesi, attingendo a materiale di provenienza diversa (a parte pubblichiamo due stralci di una sua lettera); sempre attento alle opere precedenti uscite sull'argomento, oltre che virtuoso dei contesti sociali e storici, di raccordi, fonti, tecnica, lingua, «statuti semiotici», insomma di tutto quel che di solito fa la gioia dei filologi. Marucci sostiene con un filo d'ironia, nell'introduzione al suo volume, che la molteplicità degli approcci critici a James Joyce è stata incontenibile nel corso degli ultimi decenni: «storicistica e sociologica, psicologica, simbolica e archetipica, formostrutturalista e narratologica, gender, femminista e poststrutturalista». 
La più pruriginosa, l'indagine sulla sessualità dello scrittore e della moglie Nora, che ha fatto leva sulle cosiddette lettere oscene del 1909. La più spietata, quella sulla «fase anale» da cui il povero Joyce non sarebbe mai uscito, con tanto di propensioni incestuose, accessi di gelosia e sadomasochismo. La più politicamente corretta quella che, basandosi sulla scelta di voci femminili per i finali dei suoi due romanzi principali, gli attribuisce una «membership femminista onoraria».Niente di tutto ciò, però, in quest'ultimo saggio di Marucci, deciso a rimanere con i piedi per terra, concedendo a Joyce uno statuto letterario autonomo dalla biografia personale, e prendendo per buone le sue stesse autodefinizioni, del tipo «a me interessa soltanto lo stile» o (riferita all'Ulisse) «non c'è una sola riga che sia seria».
Ecco dunque, nella sterminata quantità di materiale analizzato, il rapporto di amore-odio che lo legava al fratello Stanislaus, autore di una discussa biografia di famiglia e, come lui, perfettamente padrone della lingua italiana (anche per il fatto che visse nel nostro Paese fino alla morte). Emerge poi il forte ruolo di stimolo esercitato su Joyce da Alessandro Francini Bruni, insegnante di origine senese, anch'egli presente alla Berlitz di Trieste (i suoi corsi erano rivolti soprattutto ai triestini di lingua slava e tedesca), che contribuì non poco a «toscanizzare» il linguaggio letterario di Joyce, e probabilmente ebbe un ruolo decisivo nella sua traduzione di un brano dalla Veglia di Finnegan: quello di «Anna Livia Plurabelle», giudicata da Marucci «splendida e inarrivabile», anzi «per eresia persino superiore all'originale inglese». Importante, poi, il suo rapporto di scambio letterario con il «concittadino» Italo Svevo, al punto che l'autore della Coscienza di Zeno fu il primo a notare il nesso mentale e la sovrapposizione affettiva che si creava in Joyce fra le due città, Dublino e Trieste, e il legame quasi fisico da lui percepito tra il fiume della prima, il Liffey, e il Canal Grande della seconda. Senza contare, nota Marucci, che è proprio dalla conoscenza di Svevo e di sua moglie, Anna Livia, che si può datare la gestazione dell'ultimo, fluviale appunto, romanzo joyciano.
Ancora, salta agli occhi l'importanza di Joyce traduttore dall'inglese in italiano e autotraduttore, anzi «riscrittore» - come dimostra lo stesso brano di Anna Livia Plurabelle della Veglia di Finnegan - dove il ritmo dell'italiano mette in evidenza «il gioco fonico accurato, marcato, ma indipendente dall'originale, il registro colloquiale e insieme poetico, l'italianizzazione dei riferimenti che nell'originale sono in altre lingue», col risultato di ottenere nell'insieme «un misto di strati o di registri elevati e di altri dialettali (Venezia, Trieste, Firenze) e popolari». Se questo è Joyce, verrebbe da concludere, nessuno lo aveva psicanalizzato meglio del grande Svevo: la sua italianità, scrisse, si spiegava semplicemente con «il desiderio di sentirsi meno inglese». 

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