Il pittore austriaco riesce a esprimere tutta l’angoscia e la miseria di quel tempo,
ma anche la tenerezza di cui sono privati gli uomini al macello nelle trincee
Guido Ceronetti
"La Stampa", 22 settembre 2013
Da qui all’anno prossimo non mancheranno certo uscite di libri sulla guerra 1914-1918, cuore nero della storia dell’uomo sulla terra, e del secolo XX motore, matrice e freccia indicativa: Al Nulla. Tutte le direzioni. Non so se avranno molti lettori, perché l’Abisso fa paura a vederselo spalancato e a scoprirlo segnale non impallidito di futuri ignoti. Intorno a me la superficialità cresce come l’alga maligna, e un simile passato richiede profondità di profondità. Da cui ti sguscierà via dalle mani. Chiarire è ricominciare a chiarire.
Se n’è fatto più di un racconto, e non c’è storiografia che valga, di fronte al narrare di chi c’era e alle evocazioni disarmate del patito vissuto. Arriveranno ancora chissà quante opere storiografiche: però continua la ristampa del romanzo All’Ovest niente di nuovo, la guerra vista dalla parte tedesca in Francia, che uscì nella Germania prenazista nel 1929 (fu messo al bando e bruciato nelle piazze dall’inquisizione nazionalsocialista, l’autore fece in tempo a fuggire) e stampato in Italia da Mondadori nel 1931, tradotto da Stefano Jacini, un futuro ministro democristiano oggi dimenticato. (E tuttora lo trovi negli Oscar Mondadori). Lo lessi tra 1943 e 1945 e l’ho riletto tutto, con enorme trasporto, settant’anni dopo, in edizione francese (Stock, 2009). L’autore, Erich Maria Remarque, andò volontario al fronte nel 1914 insieme ad altri compagni di liceo, trascinati ad arruolarsi dal loro insegnante. Tutti diciottenni, entusiasti, e saranno calati in un inimmaginabile inferno: la linea di fuoco dei trinceramenti, scuola di assassinio. L’ultimo sopravvissuto, a pochi giorni dall’armistizio (è lui l’Io narrante), in un giorno di calma su tutto il fronte, si aggiungerà, vittima insignificante, al conto spaventoso delle vittime. Spero di aver l’occasione, grazie al Museo del Cinema di Torino, di vedere il film che ne fece in America, già sonoro, Lewis Milestone nel 1930.
(Dall’ultimo capitolo). La guerra per la Germania è persa, ma si può davvero credere che «per quelli di fronte» sia vittoriosa? «Siamo magri e affamati. Il nostro rancio è così immangiabile e fatto di tanti surrogati, da farci ammalare tutti. Gli industriali, in Germania, si sono arricchiti, ma a noi qui la dissenteria brucia gli intestini. I cespugli formicolano ininterrottamente di clienti accovacciati. Alla gente delle retrovie bisognerebbe mostrarle, queste figure color terra, giallastre, miserabili e rassegnate, questi corpi piegati in due, il sangue esausto per le coliche, in grado per lo più di guardarvi sogghignando e dire con labbra tremanti per i dolori: - A che serve tirarsi su di nuovo i calzoni…».
Il suono della prima linea, i limiti della voce umana nel ricordo di un altro combattente. «Tutt’attorno a me c’è un gran fuoco di sbarramento… Il tiro si allarga, insieme al pericolo che sto correndo… Da qualche parte una voce implora aiuto. Chiudo gli occhi, vinto dal terrore, e mi domando: com’è possibile che una voce umana possa emettere simili suoni?» (la sottolineatura è mia). E’ disperato, il berlinese Alfred Wolfsohn, di non poter portare soccorso a quella voce – un suono che da quel momento cambierà la sua vita.
Più forte, più penetrante della furia delle artiglierie è il gemito umano che si spegne. Scoperta in se stesso la capacità di ritrovare quel gemito e di estendere oltre i limiti il suono della sofferenza umana, quell’ex combattente dedicherà la sua restante vita all’educazione dell’urlo, del lamento, per un teatro di vocalità pura (il Roy Hart Théâtre, tra Londra e Parigi). Canto, grido, stridori, onomatopee, tutto quel che serve a svuotarsi le trippe del suono possibile secondo una disciplina finalizzata alla scena, anche questo lavoro di attori si può farlo discendere dalle topografie di martirio della guerra di Quattordici, terribile Incompiuta…
Un’altra avventura del suono accadde a un pensatore amico di Simone Weil, paralizzato a vita da una pallottola nel 1918. Joe Bousquet ricorda nitidamente di aver udito, quando venne colpito, prima del dolore, un terrificante grido. Ma era caduto senza emettere nessun grido. Dei suoi compagni di trincea nessuno aveva gridato. Da dove proveniva quel grido? Da lui stesso, penso, ma da un Io interiore, dal suo corpo eterico ferito in quello stesso istante, da quel che nella vita normale sembra non esserci perché muto.
«… asserviti ai capricci del Crimine, stravaccati dentro i visceri della terra di Francia, straziati campi» (Isaac Rosenberg: Break of Day in the Trenches; altro poeta caduto, fronte occidentale, 1918). E qui, per i rintanati, il malessere si concentra nell’orecchio, dice Jünger in Tempeste d’acciaio, tra mille rumori, l’orecchio cerca di distinguere quello che porta la morte. Le sole voci di conforto, nel cuore dell’orrore, racconta Remarque, sono i bisbigli dei soldati amici nella trincea vicina: «Valgono più della mia stessa vita, quelle voci; sono più che voci materne, più forti della paura; non c’è niente al mondo che vi possa meglio proteggere… Io non sono più che un pezzettino di esistenza isolato nel buio… vorrei sprofondare la mia faccia dentro quelle voci, le loro parole so che mi sosterranno» (cap. IX). Il rivelarsi, in quelle voci tra i fischi di morte, della solidarietà preistorica dell’uomo, infinitamente solo sul pianeta antropofago, in echi di caverne.
Trovi in una pittura di Egon Schiele, l’Abbraccio, alla Galleria Austriaca di Vienna concentrata e squadernata tutta la miseria e l’angoscia del mondo. È un amplesso di amanti, e la data: 1917, ne fa la corrispondenza visionaria del grido che tanto si impresse e trasferì in Alfred Wolfsohn sulla linea di fuoco. Ma c’è qualcosa in più, nel grido silenzioso degli amanti di Schiele, segnati dalla fame che nel quarto anno di guerra faceva strage a Vienna: lo struggimento di una illimitata tenerezza. Tra le parti sessuali dei due corpi nudi c’è una distanza di mezzo metro, la stretta magica è di collo-testa-mani, e ne emana, come un grido estremo, il bisogno dell’uomo di sprofondare interamente nelle primordiali acque femminili.
Ma agli uomini delle trincee è tolto, negato tutto. Sprofondano nel nulla. Prodigio se li rischiarano, nel buio, i bisbigli, le bestemmie, la prossimità vocale dei commilitoni.
Egon e Edith morirono entrambi negli ultimi giorni della guerra. La febbre Spagnola li uccise, quasi contemporaneamente, il 28 e il 31 ottobre 1918.
Molto più eloquente l’arte di Schiele nel 1917, del trittico di Dresda La guerra di Otto Dix, tra i più sfruttati nelle illustrazioni: la sua intrinseca volgarità, la sua protesta ovvia, vuota di pietas vera, me lo rendono francamente abbominevole. Anticipa il realismo socialista dell’abbrutimento staliniano. Dora Zweifel, un enigma. Racconta un fante d’eccezione, il grande scrittore Pierre Mac Orlan: «Fu a Carency, la prima volta che mi lasciai cadere in una trincea tedesca. Al di sopra dell’entrata di un riparo molto confortevole, tutti noi del quinto battaglione potemmo vedere un’ammirevole testa di ragazza, una testa che pareva scolpita da Despiau. Sotto la sculturina si poteva leggere un nome: Dora Zweifel. Non ho dimenticato quelle due parole, punto di partenza per me di un enigma rimasto indecifrato». Vuoi crederlo? Anche per me. Questo ricordo lo trovai in un articolo di Mac Orlan pubblicato sul Figaro Littéraire dedicato al cinquantenario (agosto 1964) della Grande Guerra. Conservo quel numero nelle cartelle del mio archivio non tecnologico, lo utilizzo dopo mezzo secolo, forse, per la prima volta. «La presenza di quel delizioso volto di gesso ci apparve in un clima eccezionale, di rovente violenza, di catastrofi, di sterile malinconia». Di inaudito, aggiungo, indecente martirio di grandi nazioni, nella padella di succulenti ideali umani.
Tuttavia, sì, credo di aver capito chi fosse, che cosa significasse Dora Zweifel nella trincea tedesca abbandonata.
E’ diventato luogo comune dire, scrivere che si è «in trincea» riferendosi a fatti e comportamenti di perfetta banalità. Sconsiglio dall’usare quell’espressione di bestemmia. Non può valere come metafora. L’uso proprio è l’unico adeguato.
Novembre 1918. A Strasburgo passata nuovamente di mano, l’armata francese vittoriosa prepara la sua entrata trionfale. La disciplina tedesca è andata in pezzi, i soviet dei soldati comandano agli ufficiali, tutti si affrettano ai treni del ritorno, verso un’appena proclamata Repubblica. Nel caos dell’ospedale militare il tenente Becker, inchiodato alla carrozzina, riceve l’ultima visita dell’infermiera Hilde, stata sua amante, pronta a partire. Singhiozza, la supplica di restare. – Sono finito… - L’infermiera si apre la blusa e gli ficca in bocca i seni, che lui inonda di lacrime. Lei riprende la valigia e sparisce per sempre. (Dalla tetralogia Novembre 1918 di Alfred Döblin, Einaudi 1982).
Forse il nome segreto di quell’infermiera era Dora Zweifel.
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