domenica 29 settembre 2013

Susanna e le altre: così la Gentileschi “vendicava” il genere femminile oltraggiato

Artemisia Gentileschi, Susanna-e-i-vecchioni, 1610. 


Melania Mazzucco

“La Repubblica”, 29 settembre 2013

Invocano il diritto all’oblio i colpevoli di brutali fatti di cronaca, che hanno espiato o si sono redenti: e anche le vittime, inchiodate per l’eternità al dolore patito. È una grazia non esaudibile: il firmamento della rete oggi riverbera ogni istante di ogni vita, anche la più insignificante. Ma Artemisia è morta intorno al 1652. Provo a liberarla dal peso della sua ingombrante biografia: a raccontare questo quadro come se ignorassi il nome dell’autore.
Il soggetto si riconosce al primo sguardo. Una giovane nuda, due uomini vestiti: è Susanna. La bella signora di Babilonia, simbolo di castità e fedeltà, ha avuto un successo travolgente nell’Europa della Controriforma (da Tintoretto e Veronese fino a Rubens, Reni, Domenichino, Guercino, Preti, Rembrandt e van Dyck). La storia viene dall’Antico Testamento: la bellissima Susanna, moglie del ricco Ioachim, si accinge a bagnarsi nel giardino della sua casa; ma viene seguita e spiata da due anziani giudici, ossessionati dal desiderio di lei. I due le intimano di concedersi, minacciando altrimenti di denunciarla come adultera. Susanna rifiuta, i due rilasciano falsa testimonianza e lei viene condannata a morte. La parola di una donna — in un processo — vale il resto di niente.
I pittori schivano il seguito. Cioè l’arrivo del profeta Daniele che interroga separatamente i vecchioni, li fa cadere in contraddizione e poi suppliziare invece di lei. Non ricordo di aver mai visto dipinta la scena del processo, lo smascheramento, la punizione dei calunniatori. Sempre la bella al bagno. Sensuale ma innocente, talvolta; voluttuosa sempre. Susanna garantiva un’immagine di nudità erotica ma vereconda, legittimata dalla fonte biblica (pur apocrifa). Inventari e archivi attestano che i committenti erano sempre uomini — spesso religiosi.
Dunque c’è una giovane donna formosa, dalla pelle trasparente. Nuda, salvo il drappo bianco sulla coscia sinistra, che occulta l’inguine. È raffigurata dal vero, con naturalismo e senza idealizzazioni: l’areola rosea, la poppa piriforme, ventre e arti cicciosi. Non si vedono gioielli, indumenti, boccette, balsami. Susanna è priva di ogni ornamento: indifesa. Il pittore — che appartiene all’ambiente romano dei caravaggisti d’inizio ‘600 — ha assimilato la lezione del maestro: la narrazione è scarnificata, la scenografia abolita. Non c’è il giardino della bella casa di Babilonia, descritto nel testo. Né il leccio e il lentisco fatali ai giudici, o fronde e verzura lussuriosa. Solo il cielo azzurro che, in alto, trasuda minerale freddezza. E i personaggi, colti in azione. Così il pittore dipinge Susanna seduta sul gradino della vasca (invisibile) in cui sta per immergersi, incarcerata dalla parete di marmo. In posizione dominante, gli spioni incombono su di lei, formando una piramide. Il linguaggio dei gesti surroga la visione della nudità. Il più anziano, col dito alle labbra, le intima il silenzio. L’altro, che non è vecchio come vorrebbe il racconto ma un giovane riccio e barbuto, tocca confidenzialmente la schiena del primo, e gli sussurra complice all’orecchio. Il prugna-bruno del suo mantello si salda col rosso di quello del vecchio: una macchia di colore contro la pallida epidermide di lei: Susanna non ha scampo. L’espressione del suo viso rivela angoscia e impotenza. Sa cosa l’aspetta, se si nega. Ma si nega, gesticolando, inorridita. Il pittore ha capovolto il senso di questa morbosa storia, pretesto per celebrare la bellezza femminile e il voyeurismo maschile. Incentrandola non sullo sguardo che viola l’intimità ma sul ricatto, l’ha trasformata in una scena di sinistra violenza psichica: la composizione verticale dell’immagine accresce l’effetto di minaccia.
Non sappiamo per chi fu dipinto questo quadro. Sappiamo però quando, e da chi. ARTIMITIA GENTILESCHI F 1610, si legge sul marmo, nell’ombra della gamba. La scritta, a lungo ritenuta apocrifa, è invece autentica. La pittrice firmò e datò l’opera. Ciò mi obbliga a rinnegare il ragionamento iniziale. L’autore del quadro era una donna: e lo rivendicava, specificando il suo nome. E voleva anche che si sapesse che l’aveva dipinto a 17 anni (era nata nel 1593). Che all’età in cui i coetanei facevano i garzoni o i lavoranti nelle botteghe dei maestri, lei sapeva già disegnare, colorire, inventare e realizzare (F= fecit) un quadro di storia di medio formato, con tre figure. Storia e corpi umani: il genere di pittura più alto e difficile. Se fosse stata un ragazzo, a 17 anni poteva “dare l’esame”, dipingendo figure per la commissione, essere accolta come maestro nella corporazione dei pittori e aprire bottega. Come zitella romana, invece, non poteva quasi uscire di casa e viveva segregata. Doveva studiare sui disegni e le incisioni del repertorio della bottega del padre, il pittore pisano Orazio Gentileschi. Ma non si poteva impedirle di coltivare il suo talento e di progredire. Anzi Orazio — sodale di Caravaggio, vedovo selvatico dalla lingua scurrile — incoraggiava le ambizioni della figlia. Nel 1612 scrisse alla Granduchessa di Toscana che Artemisia «in tre anni si era talmente appraticata, che posso ardir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere, che forse principali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere… Gli manderò saggi dell’opera di questa mia figlia dalla quale vedrà la virtù sua».Susanna e i vecchionisi lascia allora leggere come quel “saggio” della capacità (virtù) di ARTIMITIA.
Una pittrice pensa per immagini, visivamente, e ogni scelta (rinuncia al paesaggio, inquadratura stretta, verticalità, giovinezza del calunniatore e sua caratterizzazione come fosse il ritratto di una persona reale), è carica di senso. Anche la firma parla, se si pensa che a quel tempo Artemisia non sapeva“scrivere e poco leggere”. Il padre forse la aiutò a migliorare il quadro, suggerendole correzioni nella posa delle figure, e a farlo circolare, proponendolo ai propri committenti quando Artemisia fu coinvolta (per volontà di Orazio stesso, che sperava di ricavarne la dote e la restituzione dell’onore, in quest’ordine) nel processo contro il suo defloratore Agostino Tassi. Nel tribunale di Roma, non intervenne il profeta Daniele a confermare le sue parole. Artemisia fu calunniata, e l’ignominia della disonesta fama l’inseguì fino alla morte, e oltre. Ma avrebbe rifiutato il diritto all’oblio: si specializzò proprio in nudi femminili di vittime di stupro morale e fisico (Susanna, Lucrezia), in sante ed eroine forti e peccatrici (Maddalena, Cleopatra, Giuditta). Con grinta, viaggi e affanni, si costruì affetti, reputazione, gloria, dimostrando «un animo di Cesare nell’anima di una donna». Nel 1649, anziana, scrisse fieramente all’illustrissimo don Ruffo: «vi farò vedere quello che sa fare una donna». L’aveva già fatto.

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