Il capolavoro di Albert Camus
per il laico e l’uomo di fede
Mario Calabresi
Locio Coco Bée
“La Stampa“, 28 settembre 2013
Ricorre quest’anno il centenario della nascita di Albert Camus. Per questo motivo vorrei porre l’attenzione su un libro, La peste, che è stata una mia lettura ripetuta fin dai tempi giovanili. In particolare mi ha sempre fatto riflettere la figura di padre Paneloux, il sacerdote gesuita che si muove sulla scena di una città di Orano ormai sconvolta dal contagio e isolata dal resto del mondo.
Anche per questo religioso la peste è una scoperta. Nel senso che si può sapere tutto su di essa dal punto di vista clinico e medico ma non appena se ne cerca una motivazione che vada oltre il fenomeno stesso, una ragione metafisica oppure teologica, le cose non sono così facili. Per questo anche per il padre gesuita la peste rappresenta una scoperta. A motivo di ciò la prima predica di padre Paneloux ai fedeli di Orano riuniti in chiesa è solo l’inizio di un percorso di approfondimento che avrà esiti significativi nella esperienza spirituale non solo sua ma di tutta la comunità. La peste infatti che in quella circostanza egli evoca come flagello di Dio, la peste come punizione divina, sono temi di un registro troppo noto che possono impressionare e preoccupare l’uditorio ma non arrivano a incidere realmente sulle coscienze che si interrogano sulle cause di tanto male.
Ecco perché la seconda predica di padre Paneloux, che segue di circa sette mesi la prima (da maggio a novembre) è quella che davvero scava nel profondo e lascia un segno. La malattia non stava salvando nessuno, buoni e cattivi, santi e dannati, anziani e bambini. Anzi il tema del «dolore innocente» è proprio quello che precede e anticipa la sua omelia. L’aporia sollevata dal dottor Rieux (il medico degli appestati di Orano) al Dio-Amore dei cristiani, vale ancora oggi: «Mi rifiuterò sino alla morte – egli ha modo di dire al sacerdote – di amare questa creazione dove i bambini sono torturati». È il paradosso di sempre, del male che sovverte la fede, del dolore innocente, non necessariamente bambino, che reclama un perché. L’obiezione della sofferenza come via per negare Dio. L’umanesimo laico del dottor Rieux contro il dilemma di chi crede.
Il tormento scava i pensieri del padre gesuita più delle febbri della peste. Come risolvere questa contraddizione che la malattia presentava alla coscienza sua e di tutti? Perciò la religione del tempo di peste, egli dice in quel secondo e più sofferto discorso, non può essere la religione del tempo normale, dei giorni feriali. Non si potevano fare obiezioni:
, «Bisognava o tutto credere o tutto negare». Non ci si poteva opporre: «Era necessario arrivare a volere ciò che Dio voleva». Occorreva fare questo salto, apparentemente paradossale e assurdo, e far coincidere la nostra volontà con quella di Dio. È un passaggio difficile, ammette lo stesso padre Paneloux, che «suppone un totale abbandono di sé e il disprezzo per la propria persona. Ma Dio solo può cancellare la sofferenza e la morte dei bambini, lui solo può renderla necessaria, in quanto è impossibile capirla». Ecco la difficile fede alla quale bisogna avvicinarsi: «Dobbiamo amare quello che non riusciamo a capire», così padre Paneloux sintetizza in maniera folgorante la sua teologia della peste e più in generale dell’incomprensibile.
È questo Dio che la religione del tempo di peste ci fa conoscere, un Dio che vuole che la sua volontà sia la nostra e che quasi ci impone di arrivare ad amare quello che non possiamo comprendere: «Ora ho capito quello che chiamano grazia», può dire alla fine padre Paneloux, indicandoci una condizione, quella appunto della grazia, nella quale le contraddizioni della vita, l’assurdo della vita, non scandalizza più ma trova ancora un senso e un orientamento, una risposta, si potrebbe dire, anche se non è quella che si vorrebbe. Con queste riflessioni mi faceva piacere ricordare Camus e il suo libro più noto. La sua ricerca infatti non cessa di alimentare solo il pensiero del laico ma anche quello dell’uomo di fede, nella misura in cui entrambi questi uomini condividono le stesse interrogazioni sul senso e sulle ragioni dell’esistenza.
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