Personaggio universale che aiuta tutti noi a capirci meglio
Cesare Segre
"Corriere della Sera", 1 marzo 2013
Don Chisciotte è uno dei non moltissimi personaggi delle letterature moderne che s'è imposto universalmente. Non per la sua vicenda, che non è poi straordinaria, ma perché ha qualcosa di archetipico, aiuta tutti noi a capirci meglio. Il cavaliere della Mancia è pazzo, perché crede di vivere ancora nel mondo dei romanzi, tra sfide e duelli, salvataggio di damigelle indifese e fama gloriosa; ma per il resto è persona di alti sentimenti, quasi un maestro. È dunque una delle molte vittime che fa la letteratura, quando non si è capaci di distinguerla dalla realtà (tra i discendenti più famosi di don Chisciotte c'è Madame Bovary). Il romanzo a lui intitolato è uscito in due parti, nel 1605 e nel 1615, ma si può dire che il «tipo» di don Chisciotte è già disegnato perfettamente nella prima. Anziano e scalcagnato, il protagonista si fa armare cavaliere in una comica cerimonia, e cerca avventure degne dei leggendari cavalieri erranti. Siccome non sa leggere la realtà, ogni volta viene sconfitto e ridicolizzato. Ma intanto gira per la Mancia, e tutto si nobilita ai suoi occhi: le locande diventano castelli, le prostitute sono principesse, i mulini a vento giganti. E, eroe della libertà, scioglie le catene di un gruppo di galeotti in marcia verso la prigione. Il bello è che moltissime delle persone che incontra sono, anche se meno gravemente di lui, malate di letteratura, e altre svolgono acuti ragionamenti sulla loro arte prediletta: così il viaggio finisce per essere una rassegna delle idee letterarie dell'epoca. Don Chisciotte si è poi preso come scudiero un contadino ignorante e sentenzioso, Sancio, che in linea di principio smonta con il buon senso le fantasticherie del padrone, ma lentamente è attratto nel gioco e diventa una caricatura dello stesso don Chisciotte.
Il don Chisciotte della seconda parte è concepito da Cervantes in modo molto diverso, anche per mortificare un mistificatore, Avellaneda, che lo aveva anticipato con una seconda parte apocrifa. Il don Chisciotte autentico sa di essere ormai un personaggio, data la diffusione straordinaria che ha avuto la prima parte del romanzo. Si muove con passo sicuro, e sente in chi incontra l'ammirazione nei suoi riguardi. Però, nello stesso tempo, la sua inventiva si è esaurita, e sono gli altri che cercano di stimolarla. Così, mentre nella prima parte è don Chisciotte che cerca di trasformare la realtà secondo i suoi sogni, nella seconda si sente obbligato ad accettare e motivare a posteriori le trasformazioni apportate dai suoi interlocutori. I quali, onorandolo e coccolandolo, in realtà fanno di lui uno zimbello, quasi un buffone di corte.
Un'occasione per rileggere questo secondo, meno noto, don Chisciotte ce la dà l'uscita di una nuova traduzione del capolavoro, fondata sulla più attendibile ricostruzione critica del testo (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a cura di Francisco Rico, traduzioni di Angelo Valastro Canale, testo spagnolo a fronte a cura di F. Rico, Bompiani, pp. CXXIV-2162, € 30).
Per cogliere il diverso clima della seconda parte del romanzo, basta una lettura dei capp. XXXIV-XXXV. Vi si narra una macchinazione dei duchi di cui don Chisciotte è ospite. Essa ha come punto focale quella Dulcinea del Toboso che don Chisciotte ha trasformato nella propria dama, anche se è una rozza contadina appena incontrata, e forse nemmeno incontrata. Poiché don Chisciotte è convinto che Dulcinea sia vittima di un incantesimo, i duchi, instancabili nel progettare nuove avventure a don Chisciotte, fanno apparire nella foresta, dove la corte è impegnata in una caccia, nientemeno che il diavolo, accompagnato da musiche d'effetto. E poi, su un grande carro, il mago Merlino, il quale annuncia che per la libertà di Dulcinea è necessario che Sancio si frusti tremilatrecento volte «ambedue le chiappe».
E qui si possono notare almeno due cose. Anzitutto che sono stati messi in moto una grossa macchina teatrale, un gruppo di musicanti e complessi effetti speciali, per ottenere la fine, sempre fittizia, dell'incantesimo di una contadinella. E poi che il gusto dei nobili duchi scopre la sua volgarità di fondo nel prendere come bersaglio quel poveraccio di Sancio e le sue natiche. Questa volgarità ha già trovato un primo appagamento quando Sancio, fuggendo da un cinghiale, si arrampica su una quercia e rimane appeso a testa in giù ad un ramo, suscitando la grassa ilarità dei presenti.
Se nella prima parte don Chisciotte si ingannava, nella seconda viene ingannato, e la parabola da pazzia trasfiguratrice a pazzia organizzata, eteronoma, segue l'arco narrativo costituito dallo sviluppo fra prima e seconda parte. Ciò rende più complesso il rapporto fra realtà e follia e invenzione, in un gioco di specchi esasperatamente letterario. Il mondo che ora don Chisciotte attraversa è molto più ricco e variegato di quanto lo stesso don Chisciotte immaginasse, ma è anche tale da produrre una serie crescente di scacchi, come la sconfitta in duello da parte di un cavaliere più finto di lui, o la rovinosa caduta nel fango dopo che un'orda di porci lo ha travolto con Sancio. Don Chisciotte è diventato un personaggio tragico, e, prima di dichiararsi risanato e pentito, e dunque vinto, sul letto di morte, esclama, come un mistico: «io sono nato per vivere morendo».
Nessun commento:
Posta un commento