Con “Il complesso di Telemaco” Massimo Recalcati ribalta il paradigma di Freud
Luciana Sica
"La Repubblica", 20 marzo 2013
Si sente solo, è smarrito, eppure Telemaco non è travolto dalla sfiducia. Non ha mai conosciuto suo padre, ma forse un giorno potrà riconoscerlo. In una condizione malinconica, con lo sguardo rivolto sul mare aspetta che da quell’immenso orizzonte di acqua e di cielo, torni “qualcosa”. Non un fulgido eroe senza zone d’ombra, ma un padre che sa indignarsi per le dissolutezze dei Proci e difendere i suoi affetti, un uomo anche imperfetto che però non ignora come la possibilità dell’amore sia data solo in presenza del rispetto, dell’impegno, del senso di responsabilità.
Telemaco è il nuovo figlio che si affaccia sulla scena culturale grazie a Massimo Recalcati, un analista tutt’altro che estraneo alla dimensione politica, capace di riflettere sui movimenti inconsci dell’esperienza umana ma anche di uscire dai recinti del suo sapere lacaniano, efficacemente utilizzato anche come una teoria critica della società. Con Il complesso di Telemaco (sottotitolo: “Genitori e figli dopo il tramonto del padre”, Feltrinelli, in libreria da oggi), Recalcati aggiunge un brillante tassello alla riflessione sul tema centrale della paternità, sulla sua “evaporazione”, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta.
È un libro strettamente legato a Cosa resta del padre? — titolo di gran successo ristampato più volte da Cortina. Telemaco è infatti il “giusto erede” di un genitore vulnerabile che non si propone come un modello esemplare o universale, ma può rappresentare «una testimonianza etica, singolare, irripetibile» sulla possibilità di stare al mondo con qualche passione, sulla capacità di restituire fiducia nell’avvenire. E seppure la verità che trasmette si sia indebolita, non c’è nessuna nostalgia per il pater familias, il tiranno che una volta assicurava l’ordine più repressivo, «incarnazione normativa della potenza trascendente di Dio».
L’icona un po’ struggente di Telemaco, che non trasgredisce la Legge ma anzi la invoca, che non si crogiola nel nichilismo ma chiede al mondo adulto la restituzione di un senso alla vita, allontana dall’immaginario la figura di Edipo, del figlio inconsapevole e colpevole. Su quel mito sofocleo, Freud ha costruito l’impianto della psicoanalisi — per dire l’interdizione paterna al desiderio della “Cosa” materna. Ma se i padri non proibiscono l’incesto e anzi lo promuovono, annullando la differenza tra le generazioni, anche Edipo “evapora”, diventa una figura incapace di descrivere l’impoverimento dei legami familiari e sociali. Non basta più la sua colpa cieca per decifrare l’enigma delle identità giovanili, tanto meno l’egocentrismo di Narciso, con quel suo specchio che si rivela suicidario. Serve uno sguardo diverso sulla crisi profonda che attraversa l’Occidente e il rapporto tra le generazioni. Ci vogliono occhi ben aperti, come quelli di Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope, di un uomo capace di coltivare una dimensione etica della vita e di una donna che — a dispetto del corpo intaccato dagli anni — può contare su una figura maschile non titanica, ma profondamente umanizzata.
«Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge sulla propria terra», così scriveva Recalcati in un articolo di un paio di anni fa, uscito su queste pagine con il titolo In nome del figlio. Il libro riprende e allarga quella riflessione senza eccedere in tecnicismi scolastici, senza collezionare citazioni roboanti, ma ricorrendo anche alle suggestioni del cinema: Habemus Papam e Palombella rossa di Nanni Moretti, per dire la difficoltà di sostenere il peso simbolico della funzione pubblica, l’afasia e la dimenticanza degli Ideali; l’inferno del Salò di Pasolini per alludere all’orrore distruttivo del godimento privo di desiderio, al degrado del corpo senza Eros. Nel capitolo più originale, ecco i quattro grandi interpreti del disagio giovanile. Il protagonista del teatro freudiano, paradigma dello scontro tra il vecchio e il nuovo, fa da inevitabile punto di partenza: «Il figlio Edipo sperimenta il padre come ostacolo alla realizzazione del suo soddisfacimento. In questo senso la sua figura ha ispirato le grandi contestazioni del 1968 e del 1977». Il figlio-Anti-Edipo (Deleuze e Guattari), “sottofigura del primo”, ha tenuto banco negli anni Settanta con la vocazione dell’orfano, deciso a liberarsi del padre piuttosto che a combatterlo. Ma nel tempo successivo del riflusso, quando trionfa «una falsa orizzontalità », il figlio-Narciso piega l’ordine familiare alla legge arbitraria dei suoi capricci, si specchia negli oggetti che consuma, con il penoso risultato di svuotarsi di ogni slancio vitale. È in questi anni, con la grande crisi non solo economica del mondo occidentale, che entra sulla scena Telemaco: è lui — un personaggio dell’Odissea — che «ci mostra come si può essere figli senza rinunciare al proprio desiderio».
«Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero»: Recalcati evoca il celebre detto di Goethe (citato da Freud) per affermare quanto sia cruciale «il movimento di ripresa del passato», il confronto con le tracce paterne cicatrizzate nel proprio destino. Ma alla fine di un libro così pieno di pathos, nell’epilogo l’autore fa un passo ulteriore, si mette in gioco, racconta di sé, delle intemperanze adolescenziali e dei suoi genitori: di un padre dall’italiano incerto chino nella cura delle sue piante malate, di una madre che non è andata a scuola e lo incoraggia a studiare. «Da bambino avevo due eroi: Gesù e Telemaco. Era il mio modo di meditare sul legame con mio padre e sulla sua assenza... »: poco più di quattro pagine che emozionano, lasciano un senso di stupore. E restituiscono in pieno quel fondamento cristiano di Massimo Recalcati.
Sullo stesso argomento:
Marco MAZZEO, Il rinnovamento della psicanalisi nell’ultimo libro di Massimo Recalcati, "Alias - il Manifesto", 31 marzo 2013
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