Albero grigio, 1911, olio su tela; 78,5 x 107,5. L'Aia, Gemeentemuseum |
MELANIA MAZZUCCO
"La Repubblica", 3 marzo 2013
Immagino cosa state pensando. Il nome di Mondrian lo associate istintivamente, infallibilmente, a una tela bianca, scandita da linee rette, nere, che incorniciano quadrati di colori primari – giallo, rosso, blu. Quei quadri, che sembrano tutti uguali, anche se non lo sono, contrassegnati tutti dallo stesso titolo anonimo – Composizione… – sono diventati il marchio del pittore. La sua immagine iconica. Se ne trova uno in quasi tutti i musei d’arte moderna, circolano numerosi anche in versione cartolina. Guardandoli, ci siamo chiesti se quella fosse pittura, e abbiamo pensato di essere capaci di farne uno anche noi. E poi, avvicinandoci, abbiamo cambiato idea – ammirando la perfetta proporzione delle linee e dei colori, e anche la qualità della pittura stessa (sembrano stampati, o fatti con cartoni ritagliati con le forbici e poi incollati sulla tela, ma sono davvero dipinti, pennellata su pennellata).
Anch’io associavo il nome Mondrian a quelle composizioni. E sono rimasta stupefatta la prima volta che ho visto L’albero grigio. Credevo di aver letto male. Non sembrava di mano dello stesso artista. Forse, in realtà, non lo è. Ho la fissazione di leggere sempre la data di composizione di un’opera, e questa mi ha fatto molto pensare. Nel 1911, quando lo dipinse, Mondrian non era uno studente di belle arti o un esordiente alle prime armi. Aveva anzi già dipinto un centinaio di opere. Paesaggi, per lo più. Era già stato influenzato dall’impressionismo, dal divisionismo, dal fauvismo, e anche dal suo connazionale più celebre della generazione precedente, van Gogh. Come quest’ultimo, era andato a vivere in provincia, tra i contadini, e raffigurava ciò che aveva intorno: canali, spiagge con le dune, campi, marine, mulini, fattorie. E alberi. Era attratto dagli alberi, e da uno dell’Aja, in particolare – più che come elemento naturalistico, come problema tecnico. Prima lo aveva interessato dal punto di vista del colore (lo aveva rappresentato azzurro e rosso), poi da quello della forma – come in questo caso. Nel 1911 Mondrian aveva trentanove anni. A quell’età, molti grandi pittori del passato e del presente avevano già concluso la loro parabola. Per dire, van Gogh era già morto. Se Mondrian fosse morto dopo aver dipinto L’albero grigio, ci ricorderemmo di lui? Io probabilmente sì, dal momento che sono un po’ ossessionata dagli alberi – forse perché per molti artisti, pittori e scrittori, l’albero è l’immagine di sé. La pensano così anche gli psichiatri, che per capire come uno vede se stesso e in che modo si relaziona col mondo nei test fanno disegnare un albero. Ma non voglio addentrarmi nel campo minato della psicologia. Forse la storia dell’arte lo considererebbe un artista interessante, ma periferico, attardato, quasi marginale.
Invece nel dicembre del 1911 Mondrian si lasciò convincere a partire per Parigi, vi scoprì l’arte cubista di Picasso, rimase scioccato, mise in discussione tutto ciò che aveva fatto e iniziò una lenta e spietata semplificazione, un annientamento dell’oggetto, che nel giro di un decennio l’avrebbe portato alle composizioni geometriche di cui s’è detto. Fin quasi alla morte, avvenuta nel 1944, con coerenza maniacale, non dipinse altro. Come se l’arte fosse una contemplazione continua della stessa cosa. Rinnegò le opere della prima fase, e a un certo punto propose perfino a un amico di appropriarsene – cioè di dire che le aveva create lui. La natura gli divenne odiosa. Al paesaggio familiare dei suoi primi quarant’anni, ai canali, ai fari, ai campanili, alla campagna olandese e all’albero dell’Aja, preferì il cemento delle metropoli e la solitudine di città straniere – Parigi, Londra, New York. Insomma, divenne un altro.
Questo quadro sta dunque come una duna fra due mondi, due anime, due epoche. È insieme una soglia e un congedo. Non posso guardarlo senza provare una lancinante malinconia. C’è qualcosa che sta morendo, in questa immagine. E non è l’albero in sé. Che pure ha qualcosa di terminale. Qui il particolare lascia il posto all’universale, il contingente all’assoluto. Il colore è quasi scomparso: resta solo una base grigia, madreperlacea, solcata da righe nere. Anche la forma è ridotta alla sua struttura: i rami e il tronco già hanno perso foglie e corteccia, sono ormai pura linea grafica. Ma quello che sta sparendo è molto di più: un’idea di pittura. Un modo di rappresentare il mondo che è durato per millenni, e che per il pittore già non significa quasi più niente. Nell’universo astratto che andrà a creare non ci saranno più curve né oggetti, né dettagli, né esseri viventi né sfumature. Nessuna immagine. Neanche la minima traccia del soggetto. Solo un’algida perfezione geometrica. Un’essenzialità puritana, in un certo senso iconoclasta. Una bellezza intellettuale che nasce dall’equilibrio matematico: la luce arcana che emana sembrerà perfino riposante. Però non ci può appagare completamente. Perché il mondo non è giallo, rosso e blu, e ogni cosa comprende la sua ombra – è storta, contaminata, guasta, e ciò che rende appassionante la vita, ogni vita, sono le infinite variazioni del caos delle apparenze.
Allora guardo quest’albero nudo, già privo di tutto, ma che è ancora un albero, e penso che anche se non era mai stato a Parigi, e ignorava Picasso, e non conosceva gli ultimi movimenti dell’avanguardia, Mondrian era già un pittore straordinario. E mi aveva già detto tutto della sua aspirazione all’essenzialità, al superamento del disordine delle cose, alla purezza. Il resto sarebbe stata gloria – ma anche resa, rinuncia alla bellezza precaria e irripetibile di ogni vita.
L’ARTISTA
Piet Mondrian (1872-1944), pittore olandese. Studia all’Accademia di Amsterdam. Negli anni Dieci del ’900 riduce al minimo la struttura formale dei quadri utilizzando solo linea e colore. Fonda nel 1917 la rivista De Stijl.
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