SONIA GENTILI
"Il Manifesto", 5 marzo 2013
I riferimenti filosofici danteschi collocano l'autore tutto dentro la sua epoca, «intriso» di una visione della verità eterna e oggettiva. Nulla, nella Commedia, si sottrae a un sistema di pensiero che consuma la realtà nel fulgore della creazione divina
Ricordate la novella trecentesca dell'asinaio che ritmava il cammino del suo ciuco con versi della Commedia intercalati da un esortativo Arri!, e lo stizzito commento di Dante davanti alla scena («codesto arri non vi miss'io!»)? La dialettica tra le due diverse anime del dantismo - un Dante «vivo», soggetto alle distorsioni che la vita fuori dal museo impone all'oggetto storico, e la resistenza filologica alla vita popolare del testo - si esprime oggi sullo sfondo della nostra sostanziale equidistanza da ogni passato. Il testo medioevale è filologicamente ricostruito e materialmente riprodotto in modo sempre più esatto, ma il suo senso e la sua alterità culturale rispetto a noi vanno appannandosi. Il principio secondo cui la filologia è una scienza autonoma da quella dell'interpretazione dei testi è oggi in piena rinascita, non perché si creda, come credette Karl Lachmann, che la scelta delle varianti emerga con automatismo virtuoso dalla ricostruzione dei rapporti tra i manoscritti, ma perché, come capì Walter Benjamin, lo sviluppo tecnico rende più visibile il passato proprio in quanto esso non è più sorretto dalla tradizione. La crisi del nostro rapporto con la storia sta nel fatto che l'oggetto storico si fa presente e inconoscibile al contempo, come una reliquia laica che custodiamo in una teca di cui abbiamo perso le chiavi.
Confronto tra le fonti
L'edizione della Commedia curata da Giorgio Inglese presso Carocci (Inferno, 2007; Purgatorio, 2011; in preparazione il Paradiso) è il maggiore e più isolato frutto della filologia dantesca attuale proprio perché, in felice controtendenza col fenomeno appena descritto, spiega il testo valorizzando come mai prima d'ora le possibilità di senso che parole e concetti assumono nel Medioevo contestuale a Dante. Se in Purgatorio XXV, 88 leggiamo dell'anima umana che, giunta dopo la morte nell'aldilà, «loco lì la circumscrive», dobbiamo sapere che nei testi filosofici coevi l'anima, in quanto forma di un individuo, circoscrive ed individua uno spazio. Questo suggerirebbe che, nel verso dantesco, l'articolo la abbia valore pronominale e sia soggetto (cioè il verso si parafraserebbe: «là essa circoscrive una porzione di spazio»). Il confronto con le fonti è decisivo anche per scegliere tra due varianti che possono apparirci identiche sul piano della plausibilità logica e su quello dell'autorevolezza dei manoscritti che le tramandano. Ad esempio, in Inf. XI, 100, i manoscritti si dividono tra una «natura» che nasce da Dio e dalla sua arte («natura lo suo corso prende / da Dio e da sua arte») e una «natura» che nasce da Dio ed è la sua arte («natura lo suo corso prende / da Dio ed è sua arte»). Come scegliere? La chiave è nel capire cosa vuol dire «natura» in questo punto del testo: si tratta del divino che opera e immane al mondo, definito anche «arte divina» (Dante, Monarchia I, ii, 3: «ars divina quam 'naturam' (...)appellant»; così i commenti medioevali alla Fisica di Aristotele).
Ogni ipotesi di lettura non è che una possibilità da discutere, certo, ma se un'ipotesi di lettura non viene formulata, assumendone la fatica ricostruttiva - cioè l'indagine della cultura filosofica dantesca come esplorazione di un mondo altro dal nostro - il testo dantesco resta un oggetto vicino ma inconoscibile. I raffinati strumenti oggi disponibili invitano gli studiosi a commentare i testi danteschi accumulando un gran numero di fonti: è questo il caso della bellissima edizione delle Rime di Dante curata da Claudio Giunta e uscita nei Meridiani (Mondadori, 2011). In quanto i versi di Dante sono accompagnati da una eccezionale ricchezza di riscontri provenzali, francesi e italiani, il volume è un formidabile strumento di lavoro; in quanto la reale scelta interpretativa risulta a volte esorcizzata o rimandata a vantaggio di una Wunderkammer delle fonti che moltiplica l'immagine dantesca in un infinito gioco di specchi, il lettore chiude il volume con la sensazione che la scommessa sostanziale di leggere puntando su una via di comprensione resti in parte aperta. Ovviamente, per le rime d'amore la fonte può giocare da puro repertorio di immagini, mentre per la lettura del Dante filosofico la scommessa della comprensione, e dunque la scelta interpretativa anche nel rapporto con le fonti, non concede rinvii.
Come tenere la rotta
Il rapporto tra testo dantesco e fonti filosofiche coeve va inteso, come spiega Paolo Falzone nel suo recentissimo e magistrale Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante (Il Mulino, 2010), non tanto nei termini della dipendenza diretta, quanto in quelli della posizione di Dante rispetto alle altre voci del pensiero medioevale. Questa strada, praticata da Falzone e da autorevoli medioevisti stranieri (Ruedi Imbach e Irène Rosier in Francia, Thomas Ricklin in Germania, Justin Steinberg negli Stati Uniti) suggerisce che, per tenere la rotta nel capire il Medioevo dantesco, dovremmo sempre puntare sulla sua distanza da noi: anche quando sembra somigliarci, il mondo medioevale è ai nostri antipodi.
Prendiamo la concezione dell'individuo: sappiamo che nella Commedia Dante compie un eccezionale viaggio nell'aldilà con funzione di salvezza universale. In cosa consiste l'eccezionalità di Dante, di cui Marco Santagata ci offre ora un'ampia e complessa interpretazione nel pregevole L'io e il mondo. Un'interpretazione di Dante (il Mulino, 2011)? Dante è davvero un «arcipersonaggio dal destino unico e irripetibile» poiché «è stato il solo, nella storia dell'umanità, a leggere il 'volume' nel quale si raccoglie 'ciò che per l'universo si squaderna' (Par. XXXIII, 86-7) e a trasferirne al mondo la conoscenza» (così Santagata a p. 13)?
In realtà Dante stesso, nel II canto dell'Inferno, indica il suo predecessore in san Paolo, rapito al terzo cielo. Ed è san Paolo a dire nelle sue epistole che gli uomini chiamati da Dio a servire il suo disegno hanno l'unico merito di rispondere alla chiamata: in questo senso Paolo definisce se stesso vocatus, «chiamato», come molti secoli di esegesi biblica (fino a Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, 2000) affermano. Nella cultura cristiana medioevale, come per Paolo, l'individuo è limite e finitezza ma la sua anima è parte di Dio: a Dio può rispondere e tornare. Dante è eccezionale solo in quanto vocatus, e il viaggio dantesco è universale per quanto di eterno ed oggettivo vi si rivela: cioè per la visione della verità che è meta del viaggio. La cultura medioevale inverte radicalmente, rispetto a noi, il rapporto tra soggetto umano e verità: non è il «genio» individuale a raggiungerla, ma una verità compiuta ed eterna a concedersi in forma di visione, chiamando e asservendo tirannicamente a sé l'individuo. La visione dantesca non pone al suo centro l'occhio che la guarda - è questo un punto di vista, anzi, dopo Heisenberg, un luogo comune, novecentesco - ma se stessa.
La marginalizzazione della soggettività che caratterizza la cultura medioevale e tutte le culture centrate sulla verità intesa come rivelazione rischia di essere cancellata dalla rappresentazione di un Dante «creativo» e «autore» in senso attuale. In epoca dantesca non c'è «creazione» che non sia quella divina; all'uomo, artista o filosofo che sia, è concessa solo una parziale conoscenza di questa creazione.
Vanificazione delle gerarchie
Nulla, nella Commedia, si sottrae ad un sistema di pensiero che consuma tutta la realtà nel terribile fulgore della verità divina. Persino il famoso pluringuismo dantesco, che potrebbe apparirci più libero e fantasioso rispetto alla lingua poetica successiva, irrigiditasi in forme di lunghissima durata da Petrarca a Carducci, imita la lingua biblica e la spietata centralità, in essa, di un Dio che tutto illumina e tutto chiama a sé, dalle schiere angeliche, agli insetti, ai corpi malati. La lingua della Commedia, piena di latinismi e astrazioni filosofiche (Purg. III, 27: «state contenti, umana gente, al quia»; Par. I, 70-1: «trasumanar significar per verba / non si poria») ma anche di assoluta materialità (Inf. XVII, 26-7: «'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia»; Par. XVII, 129: «e lascia pur grattar dov'è la rogna») prende a modello il sermo humilis della Bibbia che sconvolse e vanificò ogni gerarchia degli stili trasmessa dalla classicità: niente più argomenti alti o bassi, poiché il creato è un'unica e varia lingua che parla di Dio.
Per esorcizzare il fatto che l'oggetto storico dantesco sembra lottare con noi, negarci e negare le nostre categorie interpretative, si può creare un Dante attuale, vicino e misterioso al contempo, in modo romanzesco: questa scommessa, ottimamente giocata da Marco Santagata (Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, 2012) non elimina ma anzi acuisce la necessità della ricerca storica. Nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, Satana punisce le ambizioni razionalistiche della ricostruzione storica - rappresentate da due intellettuali sovietici che discutono della storia di Cristo - opponendovi l'eterno presente di un romanzo su Cristo.
Il Satana bulgakoviano simboleggia i limiti della conoscibilità della storia, ma ci chiama, oggi, esattamente da quella angusta regione, visto che un intellettuale noto come Edoardo Albinati è stato in grado di affermare il 28 febbraio scorso, nel presentare un volume di Franco Cordelli, che ad una rilettura recente il Maestro e Margherita gli è parso «una cagata». Quest'episodio, che riporto con orrore anche per il tenore del giudizio, è un chiaro segno del fatto che non capiamo più. E se non capiamo più di quale salvezza e di quale verità Bulgakov parli, l'unica via da tentare è quella di leggere quest'opera riattraversando i nodi e le contraddizioni culturali del remoto mondo staliniano che l'ha prodotta.
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