"La Repubblica", 22 marzo 2013
I ragazzi afflitti dalla bruttezza non hanno scampo, devono trovare una soluzione e ci pensano tutto il giorno, ma anche quando la scorgono essa non è mai a portata di mano, anzi è quasi sempre fonte di ulteriori delusioni, non solo perché inefficace ma perché spesso peggiora lo stato già al limite della sopportazione. Ci pensano moltissimo, e sono dominati dall’emozione della bruttezza, che si installa nella loro mente prendendo il sopravvento su qualsiasi altra ideazione, acquisendo nel corso del tempo le caratteristiche della ruminazione ossessiva, lugubre, ostile, senza vie di uscita, disperata, il più delle volte solitaria e tenuta segreta a tutti. [...] La bruttezza sta prendendo il sopravvento sulla ricerca gioiosa della bellezza, a volte tronfia e supponente, che caratterizzava l’adolescenza fino a qualche anno fa. Ora la crisi della bellezza è evidente e tutti ne sono a conoscenza: è diventata cara, difficile a trovarsi, quasi impossibile da conservare a lungo, minacciata da insidie che provengono da più parti, dal cibo, dall’ambiente, dalla metropoli, dallo stress, dal tempo che passa, dalla depressione che si diffonde, dalle passioni tristi, che sono le ultime rimaste, e dalla fluidità delle relazioni che un tempo erano solide e ora si stanno dissolvendo.
Nel corso degli ultimi anni mi è sembrata quasi un’epidemia la diffusione della convinzione di essere brutti fra i ragazzi.
Non è facilissimo accorgersene perché, mentre la bellezza si sfoggia, la bruttezza si cela, e il suo portatore si nasconde e cerca tutti i modi per evitare di essere intercettato dallo sguardo sociale che può smascherarlo e farlo morire per la vergogna e per la rabbia impotente che derivano dal sopruso perpetrato dall’incurante e beata superficialità irridente del gruppo dei coetanei e dalla inconsapevole mancanza di riguardo e competenza da parte degli adulti di riferimento. Questi ultimi diventano inevitabilmente un ostacolo per l’odiosa inconsapevolezza della gravità della situazione che si è venuta a creare non per colpa loro ma sicuramente sotto lo sguardo pigro e incurante di chi avrebbe dovuto vigilare ed evitare la metamorfosi.
Non è facile accorgersi che i ragazzi soffrono per la loro incurabile bruttezza, perché se ne vergognano. L’emozione della bruttezza è senza parole, quasi come l’emozione estetica, che però è socialmente condivisibile. La bruttezza rimane muta, segregata nel dolore senza parole, nella solitudine della relazione con lo specchio, implacabile come la bilancia e il riflesso improvviso della vetrina che rimanda l’immagine del gemello brutto che non vuole scomparire del tutto.
Senza parole, ma ricca di azioni e comportamenti: la bruttezza si cela e parla di sé attraverso le pratiche cui i ragazzi ricorrono per mitigare il dolore che essa provoca e per scavarsi una nicchia sociale dalla quale scrutare, senza essere notati, ciò che succede nel resto del mondo, dove si rincorrono leggiadri i ragazzi belli o quelli che non si sono mai posti il problema e non sanno nulla della propria bruttezza, perché pensano che ce l’abbiano solo gli altri, che comunque sono fatti così e questo non ha una grande importanza.
Me ne sono accorto lentamente, ma ora penso di aver capito, anche se non so come si possa riuscire per lo meno a renderla pensabile. I ragazzi convinti di essere brutti erano nascosti dentro comportamenti che pensavo fossero innescati e alimentati da altre motivazioni. Pensavo che i tentativi di suicidio fossero ispirati da sentimenti di colpa, rabbie repentine e incontenibili, desideri di vendetta, bisogni dolenti di comunicare il segreto e la sofferenza — e infatti queste sono concause frequenti, operative nel determinarsi del tentativo di uccidersi in adolescenza — , ma poi ho cominciato a notare che ciò che accomuna i diversi destini dei ragazzi che flirtano con la morte è la loro convinzione di essere brutti, di esserlo diventati a seguito di un trauma o di esserlo sempre stati, pur avendo vissuto sotto le mentite spoglie del bambino prodigioso e splendente. Il loro sentimento di imbarazzata mancanza di valore è alimentato dalla rappresentazione della propria bruttezza amorosa e sociale, dal farsi pena per quanto si è inadeguati a vivere, una convinzione dolente e abissale, quasi biologica, di essere radicalmente privi di fascino, ingrediente indispensabile se si sente il bisogno di essere amati o almeno tollerati dalla persona che si desidera. [...] Anche i ragazzi eremiti, ritirati nella cameretta, devoti a Internet e ai suoi riti notturni, lasciano intendere, senza poterlo confessare nemmeno a se stessi, che all’inizio della loro marcia verso la solitudine concreta e la socializzazione virtuale c’è l’intuizione lancinante dell’impossibilità di lasciarsi guardare dai compagni di classe per troppe ore al giorno [...]. Gli adolescenti eremiti metropolitani all’inizio dell’abbandono scolastico e dell’isolamento sociale addebitano al corpo difettoso l’impossibilità di socializzare la propria mente, ma sanno di usare il pretesto della malattia per alludere alla vera ragione della necessità di ritirare il corpo dall’invasività degli sguardi, del desiderio e della riprovazione dell’altro.
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