L’attimo più erotico della pittura italiana
colto da Correggio
Melania Mazzucco
"La Repubblica", 10 marzo 2013
Mi sono sempre chiesta se la distinzione fra pornografia ed erotismo non sia un comodo pretesto dei benpensanti — per separare ciò che disturba da ciò che attrae, e dunque ciò che viene rifiutato da ciò che viene invece consentito. Al tempo in cui questo quadro venne dipinto, però, le parole (e gli aggettivi correlati), segnavano generi e confini precisi. Pornografico era ciò che suscita fantasie sessuali e procura piacere, e perciò mostra; erotico ciò che lascia immaginare il piacere, e perciò allude. Pornografiche erano le stampe dei Modi di Marcantonio Raimondi da Giulio Romano, con le loro scene esplicite e organi genitali in bella vista. Erotici i quadri di Giorgione, Tiziano, Raffaello, con sensuali femmine nude immerse nella natura o a letto, che si limitavano a suggerire all’osservatore (per lo più re, principe o ricco banchiere) amplessi fantasiosi e appaganti. La mitologia classica offriva in proposito uno sconfinato repertorio. Queste opere erotiche desunte dalla letteratura si chiamavano “poesie”. Tutte le poesie erotiche dipinte per i potenti del mondo hanno mantenuto intatta la loro capacità di seduzione. Ma la più audace, e la più erotica di tutte, l’ha dipinta Antonio Allegri, detto il Correggio. Vissuto prevalentemente nella Pianura padana, in una cittadina che contava nemmeno 15mila abitanti (Parma), e non vantava né un re né un papa e nemmeno una piccola corte, è sempre rimasto escluso dal canone del Cinquecento che allinea Leonardo, Raffaello, Michelangelo e Tiziano. Doveva molto a tutti e quattro, ma non gli fu inferiore. Il quadro in questione si intitola Giove e Io. È rimasta una congettura senza prove documentarie quella che il committente fosse Federico II Gonzaga, duca di Mantova. È l’ipotesi più verosimile, comunque, perché Federico, appassionato di donne, di cavalli e di armi, aveva commissionato al Correggio altre poesie di analogo soggetto, che intendeva regalare all’imperatore Carlo V, e inoltre si identificava con Giove (tanto da farsi dipingere a Palazzo Te in quel ruolo, ma non in quei panni, in quanto si volle mostrare nudo). Intorno al 1530, Correggio era reduce dall’impresa degli affreschi della cupola del Duomo di Parma: un capolavoro che in seguito gli sarebbe stato copiato da tutti i pittori barocchi italiani ed europei, ma che in quel momento — come se fosse in anticipo di un secolo sul gusto — aveva suscitato rumorosi dissensi. Gli amori di Giove vennero a risollevarlo da un comprensibile sconforto. La fonte letteraria erano le Metamorfosi di Ovidio, per secoli la Bibbia amorosa dell’Occidente. Ma l’episodio di Giove e Io dovette deludere Correggio: il dio concupisce la solita fanciulla ritrosa, che gli sfugge nascondendosi nei boschi. Poi nasconde la terra in una nebbia scura (o nuvola) e, approfittando del buio, la possiede. Correggio però ha un colpo di genio. Scardina il testo con un procedimento retorico proprio della letteratura più che dell’arte: la metonimia. L’effetto viene espresso dalla causa: la nuvola non è più il mezzo di cui si serve il dio per possedere la donna, ma il dio stesso. Nel suo quadro, Giove è una nuvola. Dipingere le nuvole (e la nebbia), è come dipingere l’aria, o la luce. Per un pittore, è la sfida tecnicamente più stimolante. Cosa sono, infatti, le nuvole? Né natura né corpo. Si possono forse toccare? Correggio accetta la sfida e la vince: dipinge una vera nuvola, evanescente, eppure di una consistenza quasi materica. Plumbea, minacciosa, gonfia di pioggia, incombe su un paesaggio autunnale, un bosco di querce su cui cala l’oscurità. Ma fa di più: la umanizza, le dà un volto, sfumato, fantasmatico, appena visibile, che emerge dalla nuvola stessa per baciare Io; le dà perfino un braccio. Non si potrebbe definire altrimenti la zampa grigio-azzurra fatta d’ombra e di nebbia che attira a sé la donna. Il secondo colpo di genio è la scelta dell’istante. Un quadro infatti può cogliere una frazione sola, del tempo di una storia.
Correggio sceglie l’attimo del bacio — anzi, quello in cui, col bacio, il principio maschile penetra la donna e le procura l’orgasmo. Mi riesce difficile ricordare in tutta la storia dell’arte occidentale un amplesso più esplicito e più spregiudicato di questo. La donna infatti non è la solita vittima fuggiasca: partecipa attivamente. Io, magnificamente nuda, è seduta su un bianco lenzuolo di seta, a sua volta posato su una roccia soffice di muschio, sul limitare di uno specchio d’acqua (in basso a destra si riconoscono la testa di un cervo e una simbolica anfora). Girata di spalle, ci offre la schiena stupenda, le natiche, le gambe, le braccia. La sua carne perlacea è dipinta con tale perizia da sembrare vera. Ma i suoi muscoli sono in tensione. La schiena s’inarca, come sotto il peso di un altro corpo, il piede s’impunta, la mano sinistra preme la zampa-nuvola contro di sé; la gamba destra si divarica per accoglierlo, la testa si rovescia all’indietro, le labbra si schiudono, come emettendo un gemito. Correggio morì poco dopo, relativamente giovane. Era il 1534. Il fortunato proprietario teneva probabilmente Giove e Io in camera da letto. Se era davvero Federico II, non lo godé a lungo: malato di sifilide, morì nel 1540, dopo aver dovuto lasciare la sua amante Isabella Boschetti per sposare Margherita Paleologa e generare eredi legittimi allo Stato. Il quadro emigrò all’estero. Anche lo spensierato erotismo di Correggio lasciò l’Italia. Col tempo, a forza di denunce e tribunali, ai pittori italiani fu sottratta la pornografia, e l’erotismo si rifugiò nel sacro (le torbide Maddalene). Agli italiani che non erano pittori furono lasciate le briciole: il sesso boccaccesco, licenzioso e scurrile. Il sesso poteva solo muovere al riso. Nessun artista ha più saputo (o potuto) cogliere con altrettanta spudorata libertà il momento più scandaloso di tutti: il piacere di una donna.
Correggio, Giove e Io (1531 ca) Olio su tela, Vienna Kunsthistorisc hes Museum
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